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Le migliori intenzioni

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Il mare d’inverno. Musica e condivisione per Germano Polano

di Francesca Cattoi

Germano e Marcello alla Baracchetta

Sono mesi che non vado a Lerici, San Terenzo, Venere Azzurra. D’estate, già mi sembra difficile raggiungere le Cinque Terre, nonostante il treno, o la Palmaria, il Pozzale, nonostante i vaporetti. La parte di levante del nostro Golfo, la penso raggiungibile solo con la macchina e l’autobus. Mi scoraggio. Mesi fa un amico mi parla del disco di Brighèla. Viene fuori che Germano Polano (Livorno, 1984) non è solo l’autore e cantante delle canzoni incise, ma è anche il proprietario della Baracchetta, luogo che sento nominare da qualche anno, ma che non ho mai frequentato. Ascolto il disco, che ha una bellissima copertina disegnata da Hervé Peroncini (Slow Beat) e che riproduce l’opera La libecciata, 1880-1885, del livornese Giovanni Fattori. Mi incuriosisce questa doppia veste, chiedo in giro, lo conoscono in molti, lo descrivono come un ragazzo tranquillo, che si è fatto notare come musicista e avventore. E quindi dopo uno scambio di messaggi, incontro Germano a Lerici in una giornata grigioverde. Il sole non esce, ma non piove, ci sono poche persone, c’è silenzio, ci sediamo al molo e, guardando il mare, parliamo. Poiché non ci conosciamo, iniziamo dall’inizio e Germano si concede alle domande e mi racconta di sé. Troviamo i nostri punti di contatto e ne viene fuori quello che leggerete qui di seguito.

Quindi Germano, sei nato in Toscana, ma dove sei cresciuto? Che studi hai fatto?
“Sono cresciuto alla Spezia, dove vivo praticamente da sempre. Ho fatto le elementari a Fossamastra, le medie alla Silvio Pellico in Piazza Verdi indirizzo musicale (tromba) e poi le superiori a Sarzana, al Liceo Scientifico Parentucelli. E quindi mi sono iscritto al Dams prima a Parma e dopo sono passato a Bologna, dove ho finito la triennale in storia e critica del cinema. Alla fine di questo percorso sono ritornato qui, a Lerici”.

Quando hai incominciato a suonare/cantare? Hai sempre avuto una band?
“Fin da piccolo sono stato attratto dalla musica. La prima band risale all’adolescenza 15-16 anni. Suonavo il basso in un trio punk che si chiamava Fuck Roger e che poi è diventato DDT, abbiamo fatto un paio di concerti, ma poi ci siamo sciolti. È stato breve, ma intenso. Nell’estate del 2001 si forma la band Evolution So Far, di matrice punk hardcore che ha all’attivo tre dischi e svariate collaborazioni e concerti in Italia e all’estero. In questo momento siamo fermi, non suoniamo dal vivo da un po’, abbiamo dei tempi molto dilatati, ma stiamo preparando l’ultimo disco che uscirà come anche il precedente Selvaggio! sotto l’acronimo della band E.S.F.”.

Quali sono, se ci sono, i momenti che consideri formativi per quello che fai adesso?
“Sicuramente l’esperienza fatta con gli ESF è quella che mi ha dato di più e non solo in termini prettamente musicali: lo spirito con cui andavamo a suonare, con cui organizzavamo i concerti e la rete di posti e di persone che abbiamo potuto conoscere e in cui ci muovevamo e ed entravamo in contatto. Questo era, ed è ancora, qualcosa che reputo estremamente importante e formativo. L’amicizia con gli atri della band, i tanti chilometri fatti insieme in macchina o in furgone, l’autoproduzione e la cospirazione DIY (do it your self) come modus operandi, la politica e i benefit, i centri sociali e i posti occupati, la gente che volava nei concerti, i fumetti e le fanzine, gli animalisti, i gay, le lesbiche, i vegetariani, i vegani, gli anarchici, i comunisti, le birre, le canne, i cani e… e poi musica, musica , musica fino a farti sanguinare le orecchie”.

Molte persone ti conoscono e hanno ascoltato la tua musica sin dagli Evolution So Far al progetto Brighèla. Hai vissuto, e stai vivendo, la scena musicale locale. Come la racconteresti? Come l’hai messa a confronto con le esperienze fatte in questo campo a livello internazionale?
“La scena musicale spezzina recente, dal mio punto di vista, è stata molto viva nel periodo in cui fu occupato il Centro Sociale RDA May Day, sotto la ciminiera dell’Enel.
Parlo del primo decennio del duemila quando insieme agli Arci locali, come La Skaletta e lo Shake, rappresentava un luogo dove molti giovani si riunivano per i concerti punk, rap, reggae e di musica elettronica. Adesso è un periodo un po’ buio, dove si punta poco sui concerti dal vivo però credo che le cose oggi si muovano in fretta e che: “rock’n’roll can never die”, come canta Neil Young.
Di quello che succedeva all’estero, sempre riferito a quel periodo (primo decennio del 2000) posso dirti che rispetto all’Italia non c’erano grosse differenze. Forse all’estero avevano più spazi, talvolta maggiore organizzazione e forse anche un pizzico di cultura musicale in più”.

Come sei arrivato ad aprire la Baracchetta, a Lerici, luogo che da alcuni anni è un punto di riferimento per la gioventù spezzina? Che tipo di luogo avete creato tu e il tuo socio Marcello Selo? Cosa lo caratterizza?
“Un giorno di pioggia Marcello e Germano incontrano ****** per caso e finita la pioggia decidono di prendere in affitto uno di quei chioschi storici sul molo di Lerici che negli anni verrà ristrutturato e poi comprato dai due amici. Da marzo ad ottobre ogni anno apriamo la Baracchetta dove, come dice il nostro amico musicista Manyang degli African Band: “si mangia bene, si beve bene, ci si diverte bene!”. Abbiamo molti amici e amiche, lavoriamo con persone che stimiamo, a cui vogliamo bene. Cerchiamo di dare un buon servizio alle persone che ci vengono a trovare e di promuovere buona musica attraverso collaborazioni con musicisti e dj da tutta Italia e dall’estero. È un posto molto caratteristico e informale, dove puoi stare bene senza spendere troppo, unico nel suo genere per la bellezza del luogo e la varietà umana e sociale della clientela”.

Cosa ti piace di più della situazione lavorativa che ti sei costruito? In che rapporto sei con le attività presenti a Lerici e rispetto alla vocazione turistica che la nostra provincia, il nostro Golfo, ha incentivato e su cui punta per il futuro?
“Mi piace lavorare vicino al mare, la possibilità di conoscere tanta gente, il fatto che organizziamo molte belle serate di aggregazione sociale e divertimento. Siamo in buoni rapporti con tutti e non abbiamo nemici. Cerchiamo nel nostro piccolo di promuovere Lerici e pensiamo che il turismo sia un fenomeno nuovo che debba essere gestito in maniera consapevole e ponderata da chi di dovere. Ci auguriamo che si possa valorizzare il territorio, la sua storia e le sue bellezze naturali. Che si punti ad incentivare la cultura e non la sua mercificazione, che si punti a preservare la natura e non la sua devastazione”.

Vuoi raccontare qualcosa della parte performativa della tua musica? La questione dell’indossare una maschera e il suonare per strada? Come organizzi questi eventi? Mentre parliamo mi è venuto il desiderio di vederti suonare in queste situazioni anomale, scomode.
“La maschera è un espediente scenico, un modo per nascondermi dal pubblico e allo stesso tempo per cercare di incuriosirlo. Ho suonato per strada solo un paio di volte per pura sperimentazione, per mettermi alla prova forse, sicuramente per avere la possibilità di suonare in mezzo alla gente che passa, che si ferma ad ascoltarti oppure ti guarda e poi se ne va … la musica è nell’aria, è di tutti. È stato divertente, credo che continuerò”.

Il privilegio di incontrare qualcuno di sconosciuto, come avviene talvolta con queste interviste, mi porta a dare l’opportunità all’intervistato di riflettere, anche insieme a me lì sul momento, sul significato del suo fare e sui risultati ottenuti. Mi sei sembrato una persona con idee chiare, precise, su come procedere nella vita. Mi sbaglio? Vuoi condividerle?
“In realtà, sono molto incoerente e pigro. Ho delle intuizioni, ma devo lavorare sulla costanza e sull’esercizio; per il resto mi fa piacere che ti abbia dato una buona impressione, sono spesso combattuto, a volte troppo negativo. Ho paura del futuro e della morte. Credo nelle persone e penso che la vita sia l’arte dell’incontro, come diceva Vinicius De Moraes in una sua canzone, e che il mondo dovrebbe essere migliore. Purtroppo non sta andando così e forse ognuno di noi si deve sentire responsabile. Sono contro la guerra e non mi piacciono le armi. Penso si debba vivere per imparare e imparare per vivere, nel mio caso specifico poi che serva anche per imparare a suonare!”.

Quali sono i progetti per il futuro a lungo e breve termine?
“Vorrei fare dei concerti in giro per l’Italia e registrare le canzoni nuove”.

Quanto conta per te fare quello che fai davanti a questo specchio di mare, in un luogo così bello dal punto di vista paesaggistico?
“Il mare è una delle cose più belle del mondo. Mi dà coraggio quando sono triste e ho tanti bei ricordi legati al mare. Il mare è dentro i miei sogni e il fatto di avere un orizzonte aperto mi aiuta a respirare, ad ossigenare il cervello. Il mare ti fa sentire libero, ti fa venire la voglia di andare via oppure di non partire mai. Il mare è bello anche di notte, tutto del mare amo”.

Germano si concede qualche viaggio. Magari non così spesso, ma trascorre anche lunghi periodi lontano da qui. Quello che impara e incontra lo mette nella sua musica e nel suo lavoro quotidiano. Il suono del cavaquino nell’ultimo disco è un ricordo del Brasile visitato qualche anno fa (tre anni ormai). Ma torna, torna sempre e trova la sua ragione e la sua energia in questo punto del Golfo della Spezia, che forse sì, è la parte più bella perché si vede San Terenzo, la città, e poi la costa che da Marola arriva fino a Porto Venere. Torno a piedi verso il parcheggio della Venere Azzurra, dove ho lasciato la macchina. Mi ricordo che qualche ora fa, quando sono arrivata, due stranieri erano in spiaggia e facevano il bagno. Li ho invidiati. La passeggiata che percorro è segnata dalle targhe commemorative dei poeti vincitori delle passate edizioni del Premio LericiPea, che ribadiscono l’appellativo di Golfo dei Poeti, dato da Sem Benelli nel 1910 (due pannelli esplicativi una alla Venere e una a Lerici, ce lo ricordano) proprio a questo tratto di costa. Anche in Germano constato la forza tenace di chi decide di restare qui, lavorare e donare, rinchiuso tra questo mare e queste spiagge strette, con la roccia che incombe. Mentre mi allontano, mi accompagnano le note e le parole di conforto di una delle sue canzone, Il vento: “Lascia che sia il vento a spazzar via i ricordi, il dolore che ti porti dentro. Lascia che questi raggi scaldino ancora il tuo viso, che la luce illumini il mondo, colorando nuovi paesaggi”.

FRANCESCA CATTOI