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Marrakesh, diario africano

Marocco, il muro nel deserto

di Giorgio Pagano

Algeria, campi profughi del popolo saharawi (2017) (foto Giancarlo Saccani)

C’è un muro anche in Marocco. Un muro nel deserto del Sahara occidentale, l’ex Sahara spagnolo. Un muro di sabbia e di mine, costruito dal Marocco per costringere nelle aree prossime ai confini con l’Algeria e la Mauritania il popolo saharawi, che abitava nel Sahara spagnolo. Un popolo che si riconosce nel Fronte Polisario (Fronte popolare per la liberazione della Saguia el-Hamra e del Rio de Oro).
Non si può parlare del Marocco senza affrontare il dramma di questo popolo e di questa regione, contesa dal 1975 dal Marocco e dal Fronte Polisario. La vicenda può essere definita come l’ultima “decolonizzazione” ancora da completare.

UNA FERITA APERTA DAL 1975
Nel 1975 la Spagna era alla vigilia del suo ritiro dalla colonia. Si pose drammaticamente la questione della sovranità del territorio. Anche la Mauritania pretendeva il controllo su una sua piccola parte. Ma soprattutto lo pretendeva il Marocco: la richiesta si basava sulla tesi che i territori della colonia spagnola fossero stati parte del regno del Marocco prima di essere colonizzati. Questa tesi non fu condivisa dalla Corte Internazionale di Giustizia e mentre l’Assemblea Generale dell’ONU recepiva questa decisione, riconoscendo il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi, in un accordo segreto il Governo di Madrid dava al Marocco e alla Mauritania il diritto di succedergli nel controllo e nell’amministrazione della zona.
Il Marocco aveva ottenuto l’indipendenza dalla Francia e dalla Spagna nel 1956. Da allora la monarchia riveste un ruolo dominante, con un difficile equilibrio tra il Re, sovrano per diritto divino, e la democrazia rappresentativa dei partiti politici, radicata molto più nelle zone urbane che in quelle rurali. Il Re Hassan II nel 1975 era in una situazione di forte difficoltà interna. Cercò di tenere a bada i militari e di ricompattare il sentimento nazionale sfruttando il tema del Sahara occidentale e organizzando la “Marcia Verde” di 350.000 civili verso la regione per riprendersi i territori, che furono spartiti tra il Marocco e la Mauritania. Le annessioni furono però vissute come una nuova invasione e colonizzazione da parte della popolazione saharawi. La reazione armata del Fronte Polisario costrinse il Marocco a una lunga lotta con la guerriglia nel deserto. Le città della regione furono bombardate dall’aviazione marocchina e il popolo saharawi fu costretto ad abbandonare le case e a rifugiarsi nei campi profughi, dove vive da 43 anni in condizioni limite, dimenticato o quasi dal mondo.
Il 27 febbraio 1976 fu creata la Repubblica araba saharawi democratica (Rasd) a Bir Lahlou, vicino al confine con l’Algeria. Quest’ultima, infatti, appoggiava il Fronte, e gli offrì anche alcuni territori, in particolare l’area attorno a Tinduf, la città più vicina al confine algerino.
La guerra durò dal 1975 al 1991. Il Fronte Polisario combatté sia contro la Mauritania, ritiratasi poi quattro anni dopo in seguito a un accordo, che contro il Marocco. Nel 1991 l’ONU riuscì a far cessare la voce delle armi: ci fu un accordo tra il Governo di Hassan II e il Fronte per il cessate il fuoco, dove il primo promise un referendum per l’indipendenza, poi in realtà mai avvenuto. La conseguenza è stata la divisione del Sahara occidentale in due parti: la prima, che comprende circa l’80% del territorio, è controllata dal Marocco, mentre l’altra è amministrata dal Fronte Polisario. Quest’ultima è quella più interna e povera di risorse, che confina con l’Algeria e la Mauritania, mentre quella marocchina è ricca di petrolio e di depositi di fosfati e, essendo lungo la costa atlantica, può fare affidamento sull’attività della pesca: la straordinaria pescosità attira flottiglie di pescherecci di vari Paesi, in cambio di adeguati compensi. Il conflitto, quindi, non è solo politico, è anche economico.

CHI C’E’ DIETRO IL MURO
A partire dal 1982 il Governo marocchino iniziò a costruire il “muro del Sahara Occidentale”, noto anche con il nome di Berm, lungo 2700 chilometri, altamente militarizzato: un confine invalicabile. Nei successivi cinque anni fu continuamente ampliato, con bunker, fossati, reticolati di filo spinato e campi minati, dove ci sono migliaia di mine anti-uomo. E’ stato giustamente definito “il muro della vergogna”.
Il muro nasconde le tende e le povere case dei 200.000 sahariani che vivono nei campi profughi nella Hammada algerina, il deserto dei deserti, noto anche come “il giardino del diavolo”: uno dei luoghi più inospitali e aridi al mondo, caratterizzato da un suolo sterile, povero di acqua e con un’escursione termica tra il giorno e la notte che sfiora i trenta gradi. Un luogo in cui le temperature in estate raggiungono i 50 gradi e in inverno scendono sotto lo zero. Un vero e proprio inferno, dove nessuno sceglierebbe mai di vivere. Mancano l’elettricità, l’acqua corrente, il cibo: una vera e propria emergenza umanitaria, che riguarda in particolare i bambini, poco meno della metà della popolazione. Il sistema economico del popolo saharawi è stato trasformato: vige un’economia di guerra, di sussistenza, che sopravvive a fatica grazie agli aiuti internazionali, tagliati drasticamente negli ultimi anni. La società tradizionale saharawi è nomade, carattere che ha progressivamente perso con la colonizzazione spagnola e soprattutto con l’occupazione militare marocchina e l’esodo forzato nei campi profughi. Da sempre, le donne sono il fulcro della società saharawi: hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo determinante nell’organizzazione e nell’amministrazione dei campi profughi, dal nulla hanno creatole città-tendopoli, poiché gli uomini erano impegnati a combattere per il Fronte Polisario. Furono proprio le donne a creare le prime “khaimas” utilizzando teli, cominciando poi ad ammassare mattoni fino a costruire i primi asili, scuole e ospedali.
Al momento dell’invasione marocchina, il tasso di analfabetismo tra i saharawi si aggirava al 95%, un’eredità dalla colonizzazione spagnola. Attualmente i saharawi hanno investito molto sull’educazione scolastica arrivando a rovesciare completamente questa cifra: il 90% è capace di leggere e scrivere. Riguardo all’istruzione universitaria, molti giovani proseguono i propri studi in Algeria o all’estero attraverso borse di studio. L’istruzione è fondamentale all’interno dei campi profughi, non solo per migliorare la vita all’interno delle tendopoli, ma anche per prepararsi al meglio per la ricostruzione del proprio Paese una volta ottenuta l’indipendenza. L’istruzione quindi è soprattutto una speranza, la speranza di un futuro migliore.
Tutto è stato realizzato al fine di costruire un sistema di vita il più normale possibile, anche in circostanze molto difficili, consapevoli che sarebbe stata una sistemazione temporanea, perché (nessuno avrebbe mai pensato di arrivare a 40 anni in esilio) tutti sono certi di tornare un giorno nel proprio Paese. Il fatto di vivere in un ambiente così inospitale potrebbe far pensare che i saharawi siano un popolo rassegnato e sfiduciato: in realtà sono un popolo fiero e fiducioso, che vive in dignità, nella speranza di tornare nella propria terra.

LA SITUAZIONE ATTUALE
Al livello internazionale, la Repubblica dei saharawi è stata riconosciuta da quasi cento Stati, per la maggior parte africani e sudamericani, anche se alcuni di loro hanno poi successivamente tolto il riconoscimento o lo hanno sospeso. Inoltre, la Repubblica dei saharawi è divenuta membro dell’ Unione Africana nel 1984, fatto che comportò l’uscita invece del Marocco, che poi vi è rientrato a inizio del 2017, pur non cambiando la sua posizione. Non è diventata però membro dell’ONU, che l’ha inclusa nella lista dei territori non autonomi. E’ presente una forza di pace delle Nazioni Unite, Minurso, che tra i suoi mandati ha quello di monitorare il cessate il fuoco e di gestire il referendum di autodeterminazione dei territori di cui si parla dal 1991.
Ora pare che l’Onu intenda promuovere l’idea della Confederazione per il Sahara occidentale: una proposta diversa dall’autonomia proposta dal Marocco (2007) e dal referendum per l’autodeterminazione proposto dal Fronte Polisario in base all’accordo del ’91. La proposta di Confederazione collegherebbe il Sahara con il Marocco secondo la formula del Commonwealth e le sue relazioni con la Gran Bretagna.
L’importante è che il dialogo si riapra. L’Italia e l’Unione europea, troppo appiattite sul Marocco, dovrebbero mutare rotta. Molto dipende da noi. Ricordo che il Comune di Spezia e molti altri Comuni della provincia, negli anni passati, hanno svolto una forte iniziativa politica: hanno premuto sul Governo italiano, informato i cittadini, ospitato durante l’estate tanti bambini saharawi. Ora tutto questo non c’è più. Meno male che esiste e opera ancora l’Associazione spezzina di solidarietà con il popolo saharawi “Laboratorio di pace”: ma senza il sostegno dei Comuni. Da estroversi e aperti siamo diventati introversi e chiusi. Come in Italia e in Europa, anche noi abbiamo dimenticato le nostre responsabilità: per secoli abbiamo rubato risorse in Africa -nel Sahara l’hanno fatto gli spagnoli-, ora abbiamo il dovere della solidarietà.

Post scriptum: le foto di questa settimana sono state scattate dall’amico Giancarlo Saccani nei campi profughi saharawi in territorio algerino.