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Samarcanda

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Dalla vecchia alla nuova via della seta: il Mediterraneo torna centrale?

di Giorgio Pagano

Khiva, murale sulla Via della Seta

La Via della Seta è anche la via del cotone. La pianta del cotone ha una storia antica: è una delle fibre più usate da migliaia di anni. Ripercorrere questa storia è affascinante, perché ci permette di scoprire come il cotone sia presente lungo tutto l’arco di vita della nostra civiltà.
Non soffermiamoci sulle testimonianze riferite al cotone delle valli peruviane e messicane e restiamo tra Asia, Africa ed Europa: le prime piante di cui parlano i viaggiatori crescevano e fiorivano sulle colline rocciose dell’Hindostan in India, in Cina e sulle coste occidentali dell’Africa. Il cotone è sempre stato considerato tipico dell’India, anche per gli abiti usati in quei luoghi. I primi riferimenti certi ci arrivano a fine Settecento da J. Forbes Royle, sovrintendente del giardino botanico delle Compagnie delle Indie orientali in Himalaya a Saharanpur. Nel suo libro “Sulla cultura e commercio del cotone in India e altrove“ accenna agli “Istituti sacri di Manu” datati 800 a.C., dove si parla di cotone come già di uso comune all’epoca.
Ai vestiti di cotone ci si riferiva con i nomi di Kurpasa” e “Karpasum” e ai semi di cotone con il termine “Kurpas-asthi”. Il nome comune bengalese “Kurpas”, che indica il cotone con i semi, è tuttora utilizzato in India. Queste sono le prime prove documentarie scritte dell’esistenza e dell’uso del cotone, anche se gli studiosi ritengono che la manifattura del cotone in India risalga ad almeno 1500 anni antecedenti. Ben presto le manifatture del cotone in India raggiunsero con il commercio la Persia.
Grazie alla politica di Alessandro Magno (300 a. C.) il cotone, che nel frattempo aveva cominciato a essere coltivato e apprezzato anche in Egitto, fu portato a conoscenza delle popolazioni europee. Veniva trasportato da cammelli verso Alessandria d’Egitto, e da lì verso tutta l’Europa. Ma per molto tempo la fibra ebbe scarsa diffusione perché considerata un prodotto d’importazione di lusso, come la seta, e perché, rispetto alla lana, era più difficile da filare e tessere.
L’importanza del cotone crebbe notevolmente dopo la scoperta dell’America, quando gli europei vennero in contatto con un’antica tradizione di coltivazione e lavorazione. Dal Sud America questa tradizione arrivò nelle colonie francesi e britanniche dell’America Settentrionale, in quelli che oggi sono gli Stati Uniti meridionali, dove il clima e il terreno erano particolarmente favorevoli: i colonizzatori, venuti a conoscenza di questa specie locale, diversa da quelle asiatiche già conosciute nel Vecchio Continente, ne trasformarono la coltivazione in un’attività produttiva.
La vera svolta arrivò con la rivoluzione industriale, grazie all’invenzione del telaio meccanico e della prima macchina sgranatrice, che abbassarono di molto il costo di produzione: dall’Atlantico alla valle del Mississippi si estese, così, quasi un’unica, immensa piantagione di cotone. E la storia, purtroppo, si intersecò con quella della schiavitù e del traffico di esseri umani tristemente legato a questa produzione.

I PROBLEMI DELL’”ORO BIANCO” IN UZBEKISTAN E L’UTOPIA DEL COTONE BIOLOGICO

Il cotone, coltura tipica dell’Asia centrale, ha sempre rappresentato la voce principale dell’economia dell’Uzbekistan. Il problema è che la pianta ha bisogno di molta acqua, e ciò ha comportato molti problemi ambientali, come il prosciugamento del lago d’Aral (ne ho scritto in questa rubrica, nell’articolo “Non facciamoci scippare la città sognata”, 18 febbraio 2018). Ma anche problemi sociali: ancora oggi la coltivazione del cotone si interseca con forme moderne di schiavitù lavorativa, in primo luogo lo sfruttamento del lavoro minorile. Ci sono poi i problemi economici: non tutti i Paesi possono competere con i colossi come gli Stati Uniti e soprattutto la Cina: quest’ultima riduce i Paesi più poveri a semplici fornitori di cotone a basso costo.
Massimiliano Milone, nel libro “100% made in cotton. Cotone e moda sostenibile”, spiega che quando si indossa una t-shirt di cotone (che pesa circa 250 grammi) in realtà si indossano 2.700 litri d’acqua. Gli altri ingredienti non citati nell’etichetta sono 80 grammi di fertilizzanti e 10 chili di emissione di CO2. Il problema è aggravato dal fatto che il cotone viene coltivato e irrigato in paesi caldi, dove l’acqua dolce è già un bene scarso. Per Milone il cotone biologico potrebbe rappresentare la soluzione, per le sue ottime rese e per il minore impatto ambientale, perché non prevede uso di fertilizzanti. L’esperienza insegna, inoltre, che con il biologico è migliore anche la vita dei lavoratori. La produzione mondiale di cotone biologico è attualmente inferiore all’1% del totale, ma è un’utopia in divenire. Anche in Asia centrale. Nel vicino Tagikistan l’ong svizzera Helvetas ha avuto l’idea di coltivare cotone biologico nella provincia di Sughd. Il progetto è finanziato dall’’Agenzia tedesca per la cooperazione internazionale dal 2013. Nell’Asia centrale, come nel mondo globale, tutto dipenderà dalla sensibilità delle imprese e dal ruolo degli Stati. E dalla responsabilità da noi consumatori: in questo viaggio ho imparato anche che cambiare maglietta è un lusso.

IL MEDITERRANEO CHE GUARDA A ORIENTE

Ma torniamo alla storia della Via della Seta, con l’aiuto dello storico Franco Cardini. Alessandro Magno, come detto, ebbe un ruolo centrale nella nuova via del commercio. Fu il primo a unire Occidente e Oriente: il suo impero si estese dalla Grecia ad Asia minore, Siria, Egitto, Persia (300 a. C.)
Un luogo strategico lungo le vie dell’Oriente fu Alessandria d’Egitto, snodo fondamentale tra Roma e l’Oriente. Un altro luogo strategico di questa rotta fu Palmira.
Poi fu la volta di Costantinopoli, erede di Roma capitale (330 d. C.) e grande luogo di incontro tra Mediterraneo e Asia.
Sulla costa orientale del Mediterraneo Gaza, Beirut e Tiro diventarono luoghi di fabbricazione della seta. Così la Calabria.

IL BUDDISMO

Dal VII all’VII secolo il buddhismo conobbe il suo momento di maggior diffusione in Asia. Mai come in quel periodo le strade della Via della Seta diventarono le vie del buddhismo. Uno dei più splendidi tesori artistici della Cina sono le “Grotte dei Mille Buddha” a Dunhuang, centro carovaniero nel cuore del deserto dei Gobi: una vera e propria galleria d’arte buddhista, templi scavati nella roccia e decorati all’interno con pitture e sculture. Impressionante, racconta Cardini, è la biblioteca, murata intorno all’anno 1000 e riscoperta solo all’inizio del Novecento. Conserva manoscritti, pitture e il più antico testo a stampa del mondo (conservato al British Museum): una versione cinese di un discorso del Buddha, datato 11 maggio dell’anno 868 d. C.
Un altro esempio impressionante dell’arte buddhista è a Gandhara, tra Pakistan settentrionale e Afghanistan orientale. L’arte del Gandhara è l’esito di influssi artistici diversi: indiani, iranici ed ellenistici. Ci sono molti tratti greci e romani, oltre che della cultura nomade e della steppa. Ci sono piante del Mediterraneo, abiti tipici del Mediterraneo, persino le toghe del Buddha lo sono: una sintesi perfetta tra Mediterraneo e mondo della steppa.

L’ISLAM

Contemporaneamente ci fu l’ascesa dell’Islam, fino alla conquista della Persia da parte dei musulmani (600 d. C.). Un grande centro strategico e cosmopolita fu Baghdad, dove si incontravano mercanti musulmani, cristiani, ebrei, indiani.
L’Islam fu da subito una civiltà eminentemente cittadina, e il mercato ne divenne un fondamentale elemento costitutivo (suq in arabo, bazar in persiano). Ne ho scritto negli articoli precedenti.
Così come ho raccontato che gli scambi culturali fecero sì che i testi fondamentali della medicina e della matematica furono scritti nel mondo islamico in questo periodo: il “Canone di medicina” di Avicenna (1000 d. C.) e gli studi sugli algoritmi di Abu Muhammad al-Khwarizmi (800 d. C).

LA SCOPERTA DELL’AMERICA E LE TRASFORMAZIONI DELLA VIA DELLA SETA
Nel 1492 Cristoforo Colombo sbarca in un’isola dei Caraibi, inaugurando -dice Cardini- “una delle più grandi rivoluzioni mentali, economiche e sociali che l’umanità avrebbe mai vissuto”. Il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Si scoprono le vie marittime atlantiche e inizia l’espansione europea. Nello spazio di un secolo, il Portogallo, prima paese periferico e marginale rispetto alle grandi correnti di traffico, diventa il centro del mercato delle spezie e delle merci pregiate e costruisce, navigando con i suoi vascelli da Lisbona a Macao, il primo impero intercontinentale della storia. A metà del Seicento Amsterdam è considerata “il centro del mondo”. Anche Spagna, Francia e Inghilterra costruiscono i loro imperi.
Ma in quel periodo non c’è solo l’espansionismo europeo. L’Asia non è in declino, e continua a mostrare vitalità. Lungo la Via della Seta sorgono nuovi imperi e si sviluppano arte, cultura e commerci: la Russia dei Romanov e l’emirato degli Ottomani. Anche grazie a questi imperi si mantiene una forte interazione tra Asia, Europa e Africa.

YI DAI YI LU – ONE BELT, ONE ROAD
Ora il senso di marcia si è nuovamente invertito: l’Europa è in crisi, è l’Asia che ricomincia a percorrere la Via della Seta spingendosi verso occidente. In Asia c’è stato un risveglio politico, religioso ed economico. Al Giappone, alla Corea del Sud e a Taiwan si sono aggiunti Singapore, Malesia, Indonesia, Filippine, Thailandia, India e soprattutto la Cina. Stanno nascendo città e infrastrutture: aeroporti, porti, ferrovie e stazioni, strade. Il 21 aprile 2016 è arrivato alla stazione di Saint Priest, un quartiere periferico di Lione, un treno con container, partiti da Wuhan, in Cina, quindici giorni prima. Il 28 novembre 2017 è partito il primo treno merci diretto Italia-Cina: dal terminal ferroviario del polo logistico integrato di Mortara, in provincia di Pavia, il convoglio ha effettuato un viaggio di 18 giorni, fino a Chengdu, per poi effettuare il viaggio di ritorno. L’obbiettivo è chiaro: affiancare “Via della Seta terrestre” e “Via della Seta marittima”, in un disegno in cui la prima diventa più veloce della seconda. In Cina questo progetto, voluto da Xi Jinping e inserito nello Statuto del Partito comunista, è chiamato yi dai yi lu, letteralmente “una cintura una strada”, o nella sua traduzione inglese “One Belt, One Road”. Si tratta innanzitutto di un’iniziativa strategica per migliorare i collegamenti, terrestri e marittimi, tra Asia ed Europa. Il Governo di Pechino ha promesso finanziamenti al progetto per 70 miliardi di yuan (113 miliardi di dollari), una parte dei quali andranno al Silk Road Fund, uno dei grandi bracci finanziari dell’iniziativa, per finanziare investimenti in partnership con Stati e imprese private occidentali. I progetti di nuove infrastrutture sono 900, i Paesi coinvolti 65, l’obbiettivo occupazionale è di 180.000 posti di lavoro. Agli aspetti meramente logistici si aggiungono anche quelli industriali, energetici e così via: il progetto è cioè un “cappello” sotto il quale possono essere intraprese iniziative diverse tra loro. “One Belt, One Road” ha inoltre un chiaro significato politico: quello di un progetto egemonico globale rispetto agli Usa, che veda la Cina grande potenza internazionale. Gli investimenti cinesi in Africa e in America Latina sono complementari a questo disegno.

UN FUTURO PER IL MEDITERRANEO E PER L’ITALIA?
All’Europa possono venire benefici? Sì e no. Conosco la presenza cinese in Africa. La strategia della Cina è quella di dire: “io vado in un Paese, faccio accordi col governo locale e ci mando le mie aziende, le mie maestranze e se possibile uso anche le mie materie prime per realizzare le opere”. Quindi non è certo che le imprese europee trarranno dei vantaggi: perché ai cinesi interessa soprattutto tutelare le loro aziende pubbliche.
L’Europa può però riconquistare l’importanza perduta come sbocco delle rotte terrestri e marittime della nuova Via della Seta. Consideriamo le rotte marittime, quelle che più interessano il nostro Paese. In quale modo l’Europa può essere sbocco di queste rotte? Una possibilità è attraverso il Mediterraneo, che potrebbe diventare la porta d’accesso della Cina verso l’Europa. Il che converrebbe soprattutto all’Italia. Il porto greco del Pireo, che è già cinese, funge da attrazione per la Turchia e il vicino Oriente: non è strutturato per la distribuzione terrestre di grandi volumi di merci. E noi? Siamo attrezzati con i nostri porti, con i loro collegamenti stradali e ferroviari, con piattaforme logistiche in grado di velocizzare i flussi delle merci? Per ora no, e non sappiamo se ce la faremo. La nuova Via della Seta impone di identificare uno o al massimo due porti italiani in grado di servire grandi navi, collegati con la Pianura padana e la bassa Germania: su questi sistemi, che raccoglieranno la merce in entrata e in uscita, occorre investire. Potrebbero anche essere terminal tra loro vicini e in concorrenza: ma dovrà trattarsi, in questo caso, di terminal serviti dalle stesse ferrovie e strade e governati dalle stesse regole. “Le autorità e le aziende cinesi hanno già preso contatti con i porti di Trieste, Genova e Venezia per sviluppare nuove opportunità di cooperazione -ha dichiarato l’ambasciatore cinese in Italia, Li Ruiyu-, con l’obbiettivo di giungere quanto prima alla sigla di un memorandum d’intesa per la cooperazione bilaterale”.
Ad accaparrarsi le merci cinesi saranno in ogni caso quelle realtà in grado di offrire alle merci il percorso migliore e più veloce. C’è un’altra possibilità: la Cina ha un’alternativa al Mediterraneo, anche se la via è leggermente più lunga (cinque giorni). E’ quella dei porti del Nord Europa, come Rotterdam e Amburgo. Sono più lontani, è vero, ma a oggi sono più efficienti. La Cina sta studiando inoltre un’altra alternativa marittima: la “via polare”. Il dramma, provocato dal cambiamento climatico, dello scioglimento dei ghiacci artici può scompaginare l’economia mondiale, prefigurando l’apertura di vie marittime “polari” in grado di accorciare i tempi di percorrenza tra la Cina e l’Europa. La centralità del canale di Suez e del Mediterraneo verrebbe in questo modo meno.
C’è poi da domandarsi fino a quando il “capitalismo comunista” della Cina avrà un futuro roseo: le sue contraddizioni esploderanno? Certo è che l’internazionalizzazione dell’economia cinese è anche una strategia per inserire il Paese in intrecci economici globali ed evitare un’implosione simile a quella dell’Urss. E’ sempre più chiaro che solo un’osmosi internazionale di idee e di persone può consentire a un Paese di essere all’avanguardia. E la Cina vuole essere un Paese all’avanguardia.

COME SI TRASFORMERANNO ORIENTE E OCCIDENTE?
Una cosa è certa: la più grande corrente di traffici mondiali percorre nuovamente la Via della Seta. Ancora una volta la storia ha a che fare con il nostro futuro. Oriente e Occidente sono sempre uniti, e si trasformeranno: anche se non possiamo prevedere il come. L’Occidente tra Quattrocento e Cinquecento ha conquistato il mondo grazie all’economia, alla tecnologia, alla scienza applicata alla guerra. L’Oriente ha mantenuto, nonostante tutto, una spiritualità e un senso della vita comunitaria che l’Occidente ha in buona parte perduto. Servirebbe un nuovo incontro tra Occidente e Oriente fondato sui valori dell’umanesimo. Il rischio invece, dice Cardini, è che l’Oriente prevalga sull’Occidente facendo propri i suoi valori. Che gli orientali diventino gli occidentali del futuro: “perché il processo di globalizzazione ha reso la cultura cosiddetta occidentale quella di tutto il mondo, o perlomeno delle sue classi dirigenti”. “Attraverso la Cina è l’Occidente che ci viene di nuovo addosso -continua lo storico-, ma non è più l’Occidente umanistico, illuministico o romantico”. Ma non dobbiamo rassegnarci: l’antidoto sta nei valori umanistici presenti in tante persone, sia in Oriente che, nonostante tutto, in Occidente.

Post scriptum: con questo articolo si conclude “Samarcanda. Diario dalla Via della Seta”. Le puntate precedenti sono state pubblicate il 4, 11, 18 e 25 febbraio e il 4 marzo.
Da domenica 18 marzo riprenderà la rubrica “Luci della città”.