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Viatico per naviganti d’Adriatico

Bari, città vecchia

San Nicola di Bari non era di Bari. Era nato a Patara di Licia (oggi Turchia) attorno al 270 e, dotato di poteri taumaturgici, fu ordinato vescovo nella vicina Myra, dove morì il 6 dicembre di una settantina di anni dopo. In seguito alla sua morte sarebbe stato venerato da tutta la cristianità, anche in seguito allo scisma che divise la chiesa cattolica occidentale da quella ortodossa orientale. In Puglia, ancora oggi, il 6 dicembre è giorno di regali assai più che la Vigilia, perché quella di san Nicola (o san Nicolò), per gli amici Santa Claus o Babbo Natale, è una festività altra rispetto al Natale. O almeno lo era fino all’Ottocento, prima che il folclore anglosassone lo spogliasse dei paramenti vescovili e lo trasformasse in quel canuto paonazzo vestito di rosso che ben conosciamo, per farne canestro nei camini di tutto il mondo in contemporanea alla nascita di Cristo. E ridurlo, infine, al macabro manichino che da qualche anno a questa parte usiamo tenere impiccato alle nostre grondaie per l’intera durata delle feste comandate, dove funziona meglio come dissuasore per i ladri che come burla a rallegrare i passanti.

Fu nel 1087 che alcuni marinai baresi, giunti a Myra non appena questa cadde in mani turche, trafugarono parte delle spoglie mortali del santo dal suo sepolcro per traslarle fino a Bari, dove l’abate Elia promosse immediatamente l’edificazione di una nuova chiesa dedicata al santo. La nuova chiesa venne consacrata due anni dopo da Papa Urbano II in occasione della definitiva collocazione delle reliquie sotto l’altare della cripta, diventando così meta di pellegrinaggi e facendo concorrenza, in fatto di prodigi e guarigioni miracolose, alla grotta del vicino Monte Gargano. Fra gli altri, da sempre qui si recano in pellegrinaggio i russi ortodossi, giacché san Nicola è il santo patrono della Russia, così come della Grecia.

La basilica di San Nicola è alla fine della città medievale, a pochi passi dal mare. Dietro l’abside corre la cinta muraria, mentre il lato destro si affaccia su un parcheggio pavimentato in cubetti di porfido, custodito da ausiliari e accessibile tramite due enormi cancelli elettrici lavorati in ferro battuto. È una domenica pomeriggio di fine ottobre, il parcheggio è pieno e la comunità dei fedeli dice il rosario. Davanti alla facciata si apre un vastissimo sagrato dal quale la basilica, rivestita in pietra bianca, si rivela in tutta la sua austera monumentalità. La stessa impressione si ripete all’interno della basilica non appena si alza lo sguardo verso le arcate e i matronei, dove la compagine muraria pare non abbia subito i soliti capricciosi rimaneggiamenti che in tutta Italia, a partire dall’età barocca, hanno snaturato le fabbriche romaniche e gotiche. Campione indiscusso del romanico pugliese – subito emulato dalla vicina cattedrale di san Sabino – san Nicola di Bari si attesta anche come uno dei primi esemplari dell’architettura romanica italiana, in anticipo di almeno dieci anni sul cantiere del duomo di Modena.

Ma la vera attrazione di Bari è la città vecchia: un medioevo riarrangiato con urgenza, pragmatismo e senza tanta reverenza, come il medioevo è stato e come sarebbe oggi. Inserti di cemento e di piastrelle rattoppano le lacune dell’antica trama dei muri in pietra calcarea, lungo la quale si accendono edicole assicurate con infissi in alluminio e dedicate alla devozione dei santi patroni locali, la Madonna Odigitria e ovviamente San Nicola, realizzati nei più diversi stili e mediante le più diverse tecniche, dal semplice dipinto murale all’icona rivestita in argento, dal bassorilievo alla statuetta in cartapesta fino alla stampa a colori delle più fortunate varianti iconografiche, appese fuori dalle case come poster apotropaici sbiaditi dalle intemperie. Una continua oscillazione tra l’alto artigianato sacro e il più sciatto manufatto seriale, dove il referente conta molto più dell’immagine: la reverenza che non si usa nella tutela dell’integrità del patrimonio artistico la si profonde tutta nella devozione.

Dagli ingressi delle case e dei numerosi circoli privati la vita straripa nelle strade, adibite ad espansione della sfera domestica. Da una finestra aperta su un vicolo arriva della musica. Avvicinandomi scorgo una sala da pranzo spoglia, dove siede un uomo sulla quarantina che si asciuga i capelli col fon mentre segue con la voce la canzone dell’ennesimo cantante dialettale neo-melodico sentimentale, di cui evoca perfettamente la mimica facciale, misurando allo specchio le potenzialità del proprio fascino. I principali incroci dei vicoli sono presieduti da massaie intente alla produzione e alla vendita dei due vanti dello street-food barese: le sgagliozze (fette di polenta fritta con un po’ di sale) e le popizze (frittelle fatte con la pasta di pizza, sale o zucchero a piacere). Sei popizze un Euro. Affare fatto. La massaia, mossa da compassione per l’ignaro e curioso forestiero con l’accento del nord, mi da ben sette squisite popizze zuccherate. Dietro gli archivolti delle infinite corti della città vecchia, gli schiamazzi dei bambini rimbombano tanto più irruenti quanto più il loro dialetto li anima: un dialetto in cui le parole sono il veicolo onomatopeico dei gesti.

Eravamo bloccati nel porto di Brindisi da circa una settimana. Cinquanta nodi di maestrale e la minaccia dell’uragano Gonzalo sul sud Italia scoraggiavano l’abbrivio di parecchie unità armatoriali come la nostra. Avevo deciso che sarei andato in treno fino a Bari per vedere la tanto gettonata basilica romanica. Senza rendermene conto mi stavo recando in pellegrinaggio presso il santo protettore dei bambini, delle fanciulle prossime al matrimonio e dei naviganti. La suggestione avrebbe raggiunto soglie notevoli il giorno dopo, quando la minaccia dell’uragano si sarebbe dissolta a favore di un’accettabile tramontana, permettendoci di salpare e di attraversare l’Adriatico fino a San Giorgio in Nogaro, dove saremmo sbarcati definitivamente. Mano a mano che risalivamo le coste croate, la notte sarebbe scesa calmando ulteriormente le acque. A conferma di un cielo ripulito dal forte vento appena soffiato, la falce lunare sarebbe tramontata assumendo tonalità via via più rossastre. Il buon viatico del santo protettore dei naviganti ci avrebbe dunque accompagnato per tutto il suo raggio d’azione fino alla laguna veneta, dove sono custodite altre sue reliquie meno popolari.

Pochi anni dopo la traslazione delle reliquie di San Nicola, i veneziani, che non si erano rassegnati all’incursione dei baresi, durante la prima crociata approdarono a Myra, dove fu loro indicato il sepolcro vuoto dal quale i baresi avevano prelevato le ossa. Qualcuno rammentò tuttavia di aver visto celebrare le cerimonie più importanti in un ambiente secondario rispetto all’altare maggiore. Fu proprio lì che i veneziani rinvennero una gran quantità di minuti frammenti ossei sfuggiti ai baresi. Questi vennero traslati nell’abbazia di San Nicolò del Lido. San Nicolò venne così proclamato protettore della flotta della Serenissima e la chiesa divenne un importante luogo di culto. Per meglio omaggiare il santo protettore dei naviganti, la chiesa venne collocata sul Porto del Lido, dove finiva la laguna e cominciava il mare aperto. Venezia e Bari si contesero le spoglie mortali del santo dal 1100 al 1992, anno delle analisi definitive sulle reliquie, svoltesi alla presenza di una commissione pontificia. Per quasi novecento anni, la contesa dello stesso osso – giacché di ossa si trattava – divise e contrappose, come mastini inferociti, i due principali baluardi cattolici all’estremità nord e sud dell’Adriatico in nome del santo che in quello stesso mare ha unito ortodossia e cattolicesimo, est e ovest, nel segno di una devozione a prova di scisma.