L'ultimo dribbling
Quando Mennea correva più di Freud
Chissà perché la cosa che più mi resta oggi di quell’incontro con Pietro Mennea è legata a Sigmund Freud, un pensatore, statico, il nulla al confronto di una gara sui 200 metri corsa in 19 e 72. Due mondi opposti, ma che in quel pomeriggio si erano come avvicinati. Freud e Mennea, l’uomo del pensiero e quello della strada.”Qui tutti sono da anni presi dal Principio del Piacere, si quello esposto da Freud, che sembra ai nostri giorni il motore scatenante l’azione umana, è appagato quando l’ego trova il riconoscimento collettivo, la sua supremazia. Quello che fanno gli atleti, vogliono la supremazia, il resto non conta e così come arrivarci”, mi aveva raccontato. E tutto secondo lui partiva da lì. Lottare contro il doping significava sminuire quella sete di potere ad ogni costo. Mennea era soprattutto un personaggio pulito, solare, magari con un eloquio un po’ lungo intricato, ma persona grande come quel record, durato 17 anni. Era l’essenza di chi non ha lo strapotere fisico, ma vede nell’allenamento lo strumento adatto per arrivare a grandi risultati, ma non per avere la supremazia, quanto per dimostrare a lui ed agli altri che si può, ci si può arrivare. E così era stato anche nella vita, dove si era laureato in giurisprudenza secondariamente al diploma isef, poi in Scienze motorie e lettere. A seguire aveva aperto uno studio da commercialista e di diritto, tutto in tarda età, perfino il matrimonio. Aveva dimostrato che se vuoi puoi. Fin al 1999 quando era anche diventato deputato al Parlamento Europeo, dove aveva realizzato un altro sogno che pochi conoscono: un rapporto sullo Sport che era stato votato in seduta plenaria da gente che lo aveva ascoltato incantata, il 7 settembre del 2000. Scriverà Ormezzano, che “Sapeva di sospetti di doping, per un suo incauto muoversi presso il dottor Kerr, il Cagliostro dei Giochi di Los Angeles 1984, ma era riuscito a spiegare la propria ingenuità e la propria conseguente pulizia”. Ed era così. Mennea resta un eroe tutto italiano, un uomo mediterraneo, l’esempio di una civiltà sportiva che oggi sfugge e che non ha archetipi. Ha fatto della sua storia la storia di una generazione, spiegando che la corsa è soprattutto sacrificio. La coscienza, quella aveva dimostrato; da altri nascosta sotto strati di grasso, oppure lastricata tra i denti, appare a volte in un sorriso. O non apparsa mai. La mancanza di allenamento può renderla inerte e pallida, proprio come un’atleta. La sua era limpida, e su quella aveva costruito un futuro che viene a mancare. Ciao Pietro, è stato un piacere.
Giovedì 21 marzo 2013 alle 14:32:09
Armando Napoletano
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