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La recensione: "Voglio arrivarci viva" di Marina Garaventa

di Diego Bruschi

Voglio arrivarci viva

Non ero molto bravo in geografia, ma un argomento, per qualche motivo, era il mio forte: i Polder olandesi. Ero affascinato da quei territori strappati al mare grazie ad un lavoro duro, all’ingegno, alla pianificazione di un operoso popolo.
Forse è incongruo, ma questo ricordo di scuola m’è riapparso alla memoria leggendo un libro: «Voglio arrivarci viva» di Marina Garaventa. L’analogia non è difficile da capire, è perfino banale: anche l’autrice di questo bel libro ha saputo strappare un territorio, ha saputo sottrarre un territorio di vita al mare della morte. Ovviamente è stato necessario utilizzare delle tecniche, è stato necessario combattere con dei mezzi che non sono «naturali» ma sono appunto «artificiali». Che significa artificiale? Che significa per un uomo del 2012 questa parola?
Prima di allargarsi troppo sul piano filosofico e antropologico torniamo ai fatti. Marina vive utilizzando dei congegni piuttosto sofisticati, in particolare una macchina che la aiuta a respirare. Non mi piace e non userò quella frase così cupa che ogni tanto ci tocca leggere: «attaccata alla macchina». No, non è attaccata, lei «usa» la macchina e, giustamente, le vuole anche un po’ bene.
Nel libro c’è la sua storia, ripercorre un cammino duramente segnato, fin dalla nascita, da problemi di salute molto seri. La nostra paziente ha un carattere di ferro, una tenacia ed una voglia di vivere incontenibili, sì che riesce, anche a dispetto, talvolta, del parere dei medici, a condurre la sua vita. A questo punto, in casi analoghi, si rischia di cadere nella retorica, in una certa melassa d’ottimismo spicciolo, ma con Marina non accade, non puo’ accadere: oltre alla tenacia è dotata di un senso spiccato dell’ironia, in qualunque situazione.

«Mentre io me ne stavo sul lettino in una delle tante rianimazioni, con un piede nella fossa e l’altro su una buccia di banana, con tubi e sonde infilate in ogni buco, circondata da medici con la faccia da becchini, arrivava sempre qualche imbecille che, candidamente, sorridendo mi diceva “Dai Mari, che ce la fai! Sei troooppo forte!”
E io, fulminandolo con lo sguardo, non potendo parlare, pensavo: Ma vaffanculo!» (p. 32)

Ma la graffiante ironia, il non concedere spazi ad un buonismo di maniera, lascia invece spazio a pagine di vero sentimento, di vero amore, di vera dolcezza. Colpisce la rievocazione con toni scanzonati ma tenerissimi delle feste di Natale dell’infanzia, la preparazione del pandolce genovese, il profumo dell’acqua di fiori d’arancio, le figure indimenticabili dei parenti, ognuno con la sua frase solenne.
Il personaggio centrale (forse così appare a me, essendolo anch’io) è il padre. Non è un uomo comune, è un cantante lirico di prima grandezza, un artista apprezzato in tutto il mondo. Ma, con finezza e grande garbo, la figlia sa leggere con smisurato amore la sua umanità, la sua vera natura

«quale magia faceva sì che quell’uomo ansioso, agitato, disordinato e pasticcione nella vita, varcata la soglia del sacro tempio del melodramma, si trasformasse in un artista preciso, pignolo e ineccepibile? Per tutti, ogni sera, inequivocabilmente, era Manrico, Pinkerton, Alfredo, Calaf ma, nel buio della sala, solo io sapevo chi era realmente: il mio papà» (p. 39)

Non è solo un libro di ricordi. C’è molto altro, c’è molto di che ragionare su cosa significa, su come si possa intendere per «vita» degna d’esser vissuta.
Torniamo alla questione delle macchine. Certamente il respiratore è la macchina che aiuta il corpo a non vedersi sfuggire la vita, ma c’è un’altra macchina fondamentale: il personal computer.

«Il computer è diventato una propaggine del mio corpo e della mia mente, tanto da permettermi, nel 2009, di affrontare persino una campagna elettorale per le elezioni amministrative del mio comune.» (p. 122)

In fondo, anch’io, anche noi tutti, siamo usi comunicare (come in queste pagine) grazie al computer. In questo la tecnologia davvero avvicina, colma distanze, con una potenza inconcepibile in passato.
E l’autrice conferma a più riprese che l’attività più importante, più essenziale al rendere sensato il vivere umano, è il comunicare. E Marina ci riesce benissimo, a comunicare e ad essere, nitidamente ed orgogliosamente, viva.

Voglio arrivarci viva
Una vita vissuta pericolosamente
Garaventa Marina e Tasso Emilia
2012, 169 p., Editore TEA