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Una storia spezzina

Sciacchetrà, il samurai dei liquori

di Alberto Scaramuccia

Vite

Quanti turisti che da ogni dove arrivano a visitare le Cinque Terre, altrettanti si innamorano a prima vista, anzi a primo sorso, dello sciacchetrà, nettare davanti al quale non ne trovi uno che si dichiari astemio. E chi glielo mesce, magari anche a dirgli che una volta lo chiamavano rinforzato, a decantare (mai termine fu più appropriato) le vicende di un percorso che si snoda nel tempo e che, se non fu tortuoso, certo risulta non poco accidentato.
La sua storia ce la raccontano testi che risalgono molto addietro nel tempo, ma ancora oggi ti si accappona la pelle quando nella lettura ti imbatti nelle peripezie che gli antenati s’inventavano per far fruttare una terra che una maligna madre natura c’aveva messo molto del suo per farla poco feconda.
Già il rilievo che, assicurano gli antichi, persino le capre, notoriamente provette alpiniste, disdegnavano per i loro salti. Lì i predecessori escogitarono la grande invenzione della pianella e del suo degno compare, il muretto a secco. Che lo vedi e pensi che basti mettere un sasso sopra l’altro, dare ogni tanto una scossetta per vedere se regge e voilà, il gioco è fatto. E invece no.
Serve la pazienza dell’arte, la vista buona nello scegliere la forma adatta del ciapòn e soprattutto tanto pietrisco che tappi i buchi e filtri l’acqua del cielo così che scivoli al mare senza trovare intoppo che altrimenti la piova tutto travolgerebbe. Poi la manutenzione, lo sguardo accorto e costante a vedere la necessità del ripristino dove il lavorio della quotidianità abbia interrotto la fluidità dell’opera.
Non era lavoro, bensì travagio düo ignaro della pausa della festa comandata, e che complicava la vita quando era vendemmia.
In quei giorni il cielo brulicava di figure strane, acrobati trapezisti di un circo il cui tendone era il cielo. Sicurati alla vita da canapi robusti, volteggiavano nell’aria fra chicchi e tralci per raccogliere il dolce frutto che il salino scagliato dall’onda irosa sullo scoglio e rimbalzato dall’urto verso l’alto, scaglie soavi di pioggia, ricadendo sulla pergola, impregna sì che il liquore che ne sorge, si fa immediato nettare nella gola.
Fu bevanda delle mense più nobili, lo sciacchetrà, gioiello di cui orgogliose s’adornavano le mense reali. Tante gocce che calavano nei calici più lussuosi mai stanchi di essere colmi per la ghiottoneria mai sazia di chi li assaporava. Peccati di gola o gioia del gusto e del piacere?
Non saprei, ma mi chiedo ora che lo sciacchetrà lo assaporano financo laggiù in Giappone, ma quelli che lo bevono se ne rendono conto che stanno degustando il samurai dei liquori?