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Una storia spezzina

Prima dell’arsenale, una la Spezia d’acqua dolce

di Alberto Scaramuccia

La Sprugola, imbrigliata nell'Ottocento

Tempo fa, in un gruppo tematico di cose spezzine attivo su Facebook, fu postata una pianta del territorio nel 1767. Stesa da due eccellenti cartografi, Giacomo Brusco e Giuseppe Ferretto, è carta che conosco bene avendone una copia in dimensioni originali, più o meno 65 centimetri in altezza per 130.
È, dunque, molto ampia, anche se il disegno dell’antica Spezia murata, pur descritta molto accuratamente, occupa meno del 4% del totale. Infatti, l’antica mappa serviva per rappresentare quante fossero le acque (fiumiciattoli, canali, polle, sorgive) presenti nel territorio dove spesso causavano danni di non lieve entità. Per questo, sono illustrati i lavori che si sono compiuti per regimentare tutto quel liquido e quelli che sono previsti.
Quella massa d’acqua alimentava anche i tanti mulini che la carta mostra allora attivi nell’area, prova che il territorio godeva dell’invidiabile ricchezza dell’elemento per cui tanti dicono che si combatterà la prossima guerra.
Di quanta acqua corresse allora per le nostre piane, forse non ci rendiamo pienamente conto perché, quando si fece l’Arsenale, i tanti rivi che calavano verso le lande dove poi sarebbero sorti i capannoni, vennero deviati nella loro corsa al mare, o ricoperti. Ne riusciamo a capire la presenza forse solo con immagini che ci portano in un mondo che non riconosciamo più come nostro, mentre invece, anche se non sembra, ancora lo è.
C’è, ad esempio, una foto famosa, scattata durante i lavori per l’Arsenale, nel viale oggi Amendola ed a quei tempi non ancora Regina Margherita, di cui s’intravedono sullo sfondo le prime case. In primo piano compaiono degli operai intenti alle loro opere mentre alle spalle sprizza verso l’alto, certo ogni cosa spruzzando, un getto d’acqua tanto potente che tutto sorpassa inerpicandosi verso il cielo a cui sembra proprio voler dare la scalata. Una picconata, magari incauta, l’aveva liberato (genio di strana lampada) dal tappo secolare che tratteneva un’energia troppo a lungo compressa. Finalmente sciolta dai ceppi, nella foto sembra proprio smaniosa di godersi la libertà della ritrovata dimensione inerpicandosi allegra e pimpante verso il cielo. Vedi la foto e capisci come e perché altri occhi, ben diversi dai nostri ormai disincantati, in quelle espressioni potenti della natura videro Ninfe, Naiadi e Nereidi. Ahinoi, che razionalizziamo tutto e, incapaci di assaporare un tale incanto, lo condanniamo alla cancellazione della memoria senza sapervi riconoscere la carica aggregante che tuttora quella forza della natura, seppure imbrigliata, mantiene. Eppure, volendo, si potrebbe.
Al numero 236 di viale Amendola c’è un fondo piccolo e anonimo, chiuso da una porticina di metallo. È una cabina dell’ENEL al cui interno stava una chiusa in ferro, poderosa apparecchiatura con congegni e ruote che serviva a regolare l’afflusso delle acque. Quel macchinario, visto più volte una trentina d’anni fa, c’è ancora? Se sì, l’ho già chiesto, perché non farlo conoscere?

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