La guerra che insanguinava ogni dove cento anni fa di questi tempi, è guerra moderna. Lo sostengono gli antichi periodici spezzini, ma penso di non sbagliare dicendo che era pensiero comune e diffuso. L’analisi sulle modalità del grande scontro in atto vede che le parti attive del conflitto non sono più, come una volta, gli eserciti, bensì i popoli. Le masse sono impegnate nell’immane sforzo della distruzione totale dell’avversario, o almeno nel tentativo supremo di procurare all’avversario il maggior danno possibile. Ogni risorsa è destinata al raggiungimento di questo scopo che è vitale. Ciò comporta, fra l’altro, l’utilizzo di tecniche e forme di comunicazione non adoperate in precedenza: si sono raffinate rispetto al passato anche recente per meglio instillare nell’opinione pubblica il convincimento della giustezza dei motivi per cui si combatte. Anche per questo la prima guerra mondiale è la prima guerra moderna e non solo per l’uso di armi ed accessori inconsueti, molti dei quali, in verità, non proprio nuovi di zecca. L’uso della carta stampata (libri e soprattutto giornali) è però novità, esercitata così a livello di massa: è il processo di alfabetizzazione avviato ormai da parecchi anni che fornisce a chi ne era sprovvisto per motivi sociali, i rudimenti per apprendere.
Sui giornali dell’epoca la consapevolezza del ruolo svolto, è ben presente. Ne “Il Giornale della Spezia” che dirige, Arturo Paita anticipa a fine di aprile, quando l’Italia è ufficialmente neutrale ma a tutti è chiaro che lo sarà ancora per poco, quale «missione» ha la stampa nel contesto storico che si sta vivendo: far sentire con molta chiarezza a quanti staranno al fronte, che hanno dietro a sé tutta la Nazione e davanti «le speranze che vengono dall’altra parte dell’Adriatico».
È interessante anche notare la strategia di comunicazione messa in piedi. Essa consiste essenzialmente nella demonizzazione degli Austro-Tedeschi: questi ultimi diventeranno nostri nemici successivamente, ma già li si considerano tali. Di questi ricordano le atrocità commesse specie verso i civili; per quelli si ricorre alla lotta combattuta specie nel periodo risorgimentale dagli Italiani contro il «secolare nemico». I resoconti delle gesta dell’epopea indipendentistica sono narrate tipo western: da una parte il 7° Cavalleggeri, dall’altra gli Indiani. La storia è un po’ più complessa della divisione manichea fra buoni e cattivi, ma sono momenti in cui non si può andare per il sottile. Così, se si parla bene di Radetzsky, è solo per dire che era meglio dei discendenti contro cui si era impegnati: figurarsi, dunque!
Si va anche più indietro fino al «X dicembre 1746», quando Genova seguendo Balilla cacciò gli Austriaci.
L’unico Asburgo di cui non si dice male è il Granduca Leopoldo che i suoi sudditi toscani chiamavano con affetto Canapone. Ma è comprensibile: da così tanto la sua famiglia stava in Italia che le caratteristiche di casa d’Austria s’erano purificate, risciacquate in Arno.
Una storia spezzina
La propaganda in guerra: tutti a sostegno dei soldati
di Alberto Scaramuccia