Non serve ridire che anche le abitudini alimentari contribuiscono a definire l’identità di un individuo come di un territorio, tanto, quale che sia l’elemento considerato, da ciò che mangia si conosce anche lo stato del suo borsellino. Nella terra de-a fainà e de-a mes-ciüa non s’inventò mai la salsa alla bourguignonne non perché al masterchef nostrano mancasse l’estro per idearla, ma proprio perché gli deficitava la materia su cui applicarlo; nel caso, la bella carne che pascola le terre ubertose di Borgogna. Che il territorio era povero si capisce anche dalle nostre ricette, non solo perché delle industrie che presero la residenza sul Golfo dopo l’Arsenale, non una che è una fu finanziata da capitale indigeno.
Cento anni fa da ‘ste parti si fece un po’ di fame, ma penso che fosse fenomeno generale per tutto il Continente affatigato com’era dalla guerra. Soprattutto, non si mangiava la carne: ce n’era poca e la poca sul mercato costava troppo in un momento in cui aumentava ogni cosa tranne che la paga. Sui giornali, la cosa non viene detta esplicitamente, ma la si comprende più che bene leggendo fra le righe e, credete, non serve particolare abilità.
Si spinge ad allevare conigli che sono utili, l’ho già ricordato, anche per la pelliccia con cui si confezionano capi che proteggano dal freddo delle trincee. Ma la situazione volge così al brutto che s’invitano gli Spezzini ad allevare colombi: la loro carne è buona ed energetica, si riproducono numerosi con facilità e, per di più, la loro dieta non sottrae nulla all’uomo che consuma cibi diversi.
Quanto attecchì l’idea, proprio non saprei dire, ma di certo le famiglie si buttarono su un altro alimento capace di rimpiazzare adeguatamente la carne. La gente cominciò a consumare uova, costavano poco e nutrivano se non molto, almeno abbastanza. Siccome però c’è sempre un però, per legge di mercato il loro costo sale. Il Comune che da inizio guerra ha pubblicato un calmiere dei beni di prima necessità, ne fissa il prezzo a 1,90 lira alla dozzina, cifra che non accontenta né chi produce, né chi rivende. Conclusione: non si trovano più uova e la fame non viene soddisfatta. Si fanno ricerche per sventare l’incetta e in un magazzino se ne trovano ben 12mila, la massima parte fradice. Capisci: si preferiva farle marcire piuttosto che venderle! Di queste, per fortuna, 1500 sono ancora buone e il Comune le vende a 10 citi l’una, sotto il calmiere, ma, finita la scorta, siamo alle solite: niente uova senza che le galline facessero la serrata. Era il mercato, causa che giustificava ogni disgrazia del mondo.
E oggi?
Una storia spezzina
La faida delle uova
di Alberto Scaramuccia