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Una storia spezzina

Là dove si ergeva il colle dei Cappuccini

di Alberto Scaramuccia - Trasformazioni, 2

Import 2013

(…prosegue)
Ogni tanto qualche amico chiede lumi perché non si raccapezza sul grosso sperone boschivo che compare in molti dipinti di Agostino Fossati, il grande vedutista spezzino che fotografò per noi nelle sue tele quella Spezia che da un bel pezzo non c’è più. Ciò che suscita la loro perplessità è una macchia, scura ma mai minacciosa, che meglio si staglia nel dipinto per essere a stretto ridosso del bianco niveo di Palazzo Da Passano che allora ospitava l’Hôtel Croce di Malta e oggi la Fondazione.
Quel piccolo rilievo è il Montetto dove da fanti giocavamo a pallone prima che vi si facesse Cristo Re.
Ai tempi di Fossati lo chiamavano colle dei Cappuccini, ma prima che i Scapussìn s’insediassero là sopra era il capo, o cavo, di Ferrara (anche con una sola erre) per via di una cava di ferro. Ma quando vi andarono i primi frati cappuccini, dalla presenza di quei reverendi padri che là eressero chiesa e convento, la collina prese il nome.
Ancora a metà Ottocento la collina viene descritta come un luogo quasi incantato: cinque cornici concentriche ricche di alloro, lecci e larici con un sentierino tutto curve che dal 1672 scendeva al mare. Eh sì, perché la collina arrivava alle onde, circa fin dove oggi è la Capitaneria. Nel 1857 i Piemontesi vi vollero erigere una nuova batteria sulla preesistente fatta dai Francesi 60 anni prima. I Scapusin avevano superato la bufera giacobina tornando nel loro convento nel 1815 dopo un dentro-fuori dettato da chi (Francesi o Austro-Russi) comandava al momento, ma furono sfrattati da Torino che si preparava per l’avventura arsenalizia. Per di più, e fu causa di grande attrito con la città, dopo un po’ si eresse un’altra batteria ai piedi del Montetto. Era inutile alla difesa, ma dimostrava chi deteneva il potere alla Spezia ed a nulla valsero le dimissioni di Sindaco e Giunta che pensavano per la città tutt’altro destino che il militare. Quando intorno al 1910 la si abbatté, fu festa grande. Però la collina permaneva come un separé naturale che limitava la città impedendole l’espansione a est, verso Migliarina. Costituiva, per il tempo della città industriale, una cesura assurda, uno iato anacronistico che limitava sviluppo ed ampliamento.
Così la si buttò giù praticando un taglio normale al suolo e si fecero portici e piazza dove prima il leccio frondiva al vento. Il primo colpo demolitore fu inferto venerdì 28 ottobre 1927, quinto anniversario della marcia su Roma. “L’Opinione”, giornale dell’epoca che immortala l’evento con una foto in cui oggi si legge solo l’usura del tempo, scrive trionfante che “si toglie alla Spezia una specie di incubo che offuscava la via diritta e ferma dell’avvenire”.
Certo, sono parole roboanti e il tono è quello ampolloso che si usava all’epoca, ma quanto traspare un’illimitata fiducia nel futuro! Oggi la possiamo solo invidiare ché è da un po’ che è andata persa al pari della memoria del promontorio di Ferrara che solo Fossati adesso ci ricorda com’era una volta quando scendeva sino al mare.

(Continua il 16 giugno…)