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Il 23 gennaio 1343 Simon Boccanegra, doge della Serenissima Repubblica di Genova, concesse alla Spezia, che allora si chiamava Spedia, la tanto desiderata autonomia smembrandola dalla Podesteria di Carpena nella quale fino ad allora era stata compresa. Da quella data, dalla finalmente raggiunta autonomia principiano le magnifiche sorti e progressive della nuova entità cittadina.
526 anni e qualche mese dopo, cosa stranota, viene inaugurato l’Arsenale Militare da cui nasce una nuovo agglomerato che in comune con il precedente ha veramente ben poco. Siccome non vedo persistenza alcuna, né si manifesta continuità fra i due centri, penso che si possa in piena legittimità parlare di due Spezie. Come ogni seconda repubblica si differenzia dalla precedente per essere caratterizzata da una diversa carta costituzionale che stabilisce nuove regole nel patto fra i cittadini, così sorge una città che non ha più alcun rapporto con quella che l’ha preceduta.
In questo contesto si forma, l’ho già detto, un nuovo ceppo umano che ha poco in comune con quello che soppianta, a cominciare dalla parlata che si forma. Nasce, infatti, una lingua franca, quasi novella koinè, in cui le vecchie parole pian piano si dissolvono di fronte al travolgente irrompere di nuovi vocaboli che, essendo maggioranza, non faticano ad imporre la loro presenza. Ma sono i numeri ad imporre la nuova parlata, non una vittoria militare, come fu per il francese e lo spagnolo, o mirabili opere letterarie, come fu per l’italiano.
Su queste lande vennero in tanti e mischiarono i loro idiomi; vennero in tanti e a me la loro venuta ha fatto sempre pensare all’operazione che Roma, finalmente vincitore sui Liguri Apuani, attuò trasferendo nelle terre appena conquistate (era il 177 a. C., ci dice Tito Livio) duemila coloni che presero il posto, e le terre, degli antichi abitanti sconfitti. Questi, infatti, vennero dedotti nel Sannio sì da meglio controllare le loro eventuali velleità di rivincita: un’intera popolazione portata da questi lidi in Abruzzo, dall’un mare all’altro, che se ai discendenti oggi gli guardi il DNA, lo trovi simile al nostro.
Deduzione, portare via da, parola tanto rara quanto raccapricciante che indica lo sradicamento, nel nostro caso di un’intera popolazione. Fu esodo forzoso, attuato per una superiorità militare; quello del dopo Arsenale è stato, anche se per un percorso alla rovescia, quasi identico trasferimento, questa volta forzato dal bisogno di lavorare. La deduzione dei tempi moderni, all’incontrario.
Ignoro come si adattarono gli antichi Liguri alla nuova vita che dovettero condurre nelle terre aspre del centro-sud dello Stivale, né saprei dire quanto fu agevole per i coloni latini abituarsi alla terra ligustica che è così matrigna. Solo so che gli immigrati dell’Arsenale s’adattarono al loro nuovo stato superando le difficoltà che la vita in comune di genti tanto diverse fra loro poneva nella consapevolezza di doversi costruire una nuova esistenza.
(Continua…)