“L’Opinione” fu settimanale spezzino dichiaratamente di regime che, oltre a celebrare i fasti del fascio nazionale e locale, volle anche mantenere viva la spezzinità ricordando episodi passati che la testata riteneva utili per rinfocolare un senso di appartenenza al territorio che si andava già sfacendo.
Così, in un numero del 1932 leggiamo una cosa di fatto sconosciuta.
A Casa Alberto, l’edificio che ospitava la chiesa battista, il fondatore Clarke affitta un locale a degli Spezzini che vi fanno un circolo che chiamano “I braghemole”, i posapiano.
Lì quei soci si radunano per passare il tempo unendo a buone letture ed animate discussioni, anche delle cene a base di stoccafisso e peperoni: non c’è che dire, godevano di buona digestione.
Nel circolo un giorno si presenta un pittore per vendere un suo quadro che raffigura Garibaldi, tema che piace assai nell’ambiente. È sgradita, però, la tecnica con cui si realizza il dipinto. Troppo “modernista”, dice il giornale, per non far storcere più di un naso. I presenti cui è proposto il quadro si mantengono perplessi, non sanno che dire né fare finché Davide Tenerani, storico giornalista spezzino, non chiede ad Ubaldo Mazzini, il prestigioso intellettuale da tutti stimato, di esprimere un parere.
L’Ubaldo si alza, prende il quadro, lo mira e lo rimira, storce la testa di qua e di là per osservarlo meglio, si gratta un po’ la testa per meglio concentrarsi mentre tutto i presenti pendono ansiosi dalle sua labbra aspettando il verdetto che, quasi giudizio di Paride, deciderà del valore artistico dell’opera.
Finalmente, dopo avere a lungo meditato, l’Ubaldo “borbotta: – Me paa gh’amanca …” e dopo quelle poche parole bruscamente s’arresta. All’inaspettata fermata l’uditorio si guarda smarrito, quasi avesse perso l’ultima certezza, ma nessuno degli astanti osa chiedere al Maestro quale sia la cosa che manca. Per sbloccare l’impasse, ecco finalmente che Tenerani, forte dell’autorità che gli proviene dall’essere il decano della stampa spezzina, non domanda con accento toscano: “O che ci manca?“.
Sono passati ormai tanti anni da quando l’Ubaldo si firmava Gamin, il discolo scavezzacollo; ora è intellettuale serio e rispettabile, ma l’anima resta quella, né sarebbe potuto essere diversamente. Così la sua risposta è sull’antico registro di quando per l’età poteva ancora essere il monello prendingiro:
“Ghe manca trei onse d’eio de rissìn!”, mancano tre once di olio di ricino, la sostanza usata nella pittura ma anche potente lassativo. Chissà se era per il pittore modernista!
Non cercate onse sul Dizionario spezzino: non c’è.
Una storia spezzina
L’Ubaldo e quelle tre once di olio di ricino
di Alberto Scaramuccia