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Una storia spezzina

Il mito della Contessa, dimenticata dai coevi

di Alberto Scaramuccia - Virginia, 2

Virginia Oldoini

(…prosegue)

Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria Oldoini, figlia dei marchesi Filippo e Isabella Lamporecchi, maritata a Francesco Verasis, conte di Costigliole d’Asti e Castiglione, madre di Giorgio, morì a Parigi in una casa di Rue Cambon 14 dopo aver dovuto lasciare il più chic appartamento di Place Vendôme. La sua salma riposa da quel 28 novembre 1899 nel cimitero del Père-Lachaise, che ospita tantissimi nomi illustri, fra cui, gli esclusi non s’offendano, ricordo Wilde e Proust.
Ogni tanto sulla tomba di Nicchia c’è un mazzo di fiori freschi: magari anonimi, ma dal sicuro profumo sprugolino. Non pochi, infatti, sono i visitatori che, partiti dal Golfo per il Louvre, dopo la rituale visita alla Tour Eiffel, vanno a omaggiare l’illustre concittadina, ormai assunta a simbolo prestigioso della nostra città.
Però, attenzione: da tempo, non da sempre. La fama della Rapallina data al primo Novecento, quando un francese cominciò a divulgarne le imprese. D’Annunzio poi ci mise del suo e la storia non tardò molto a farsi anche leggenda, sì che la favola bella della Contessa di Castiglione prese le ali e da allora vola alta, specie nelle teste degli Spezzini che l’hanno elevata a loro simbolo identificativo.
Gli è che, si eccettui il periodo resistenziale, il mito, la saga hanno sempre fatto difetto a questa terra, forse troppo povera e dimessa per poter ambire ai lombi illustri che solo l’epica può assegnare quando ricostruisce un qualsiasi trascorso partendo dall’invenzione operata dalla fantasia popolare che trasfigura il passato e crea tradizione. È operazione semplice; basta avere una storia alle spalle. Ma noi Spezzini la abbiamo? Intendo conosciuta, condivisa, partecipata.
Che essa manca, lo dico anche troppo spesso. È così che, avendo fame di un’epica che ci manca e che invidiamo a troppi altri, non appena si presenta l’occasione, ci buttiamo sopra e la facciamo nostra. Ed è positivo (non mi si travisi) perché così si costruisce un retroterra comune che non può che costituire un bene collettivo.
Ma stiamo attenti: quando Virginia morì, a quegli Spezzini dell’ultimissimo Ottocento, l’evento luttuoso interessò veramente poco. Lo testimoniano i due periodici locali che alla notizia dedicano uno spazio proprio limitato. Uno informa in un veloce trafiletto definendo Virginia eccentrica; l’altro le dedica un articolo più lungo, ma in ritardo e nella pagine interne. Al di là delle misere quattro righe, non c’è posto per l’Imperatrice senza Impero, né si ricordano i successi riportati nei palazzi parigini, le mise ai balli a corte tanto osée, la melanconica decadenza.
Oggi, invece, sappiamo tutto di Virginia, anche per l’assidua ricerca operata sul tema dai coniugi Giuliana e Sergio Del Santo (grazie!). Però, a conferma della scarsa dimestichezza che Spezia ha con l’epos, va notato che questo è mito esogeno, nato da fuori, non per spinta popolare interna.
C’è passione, difetta la consapevolezza. Facciamo il tifo, ignoriamo il perché.