Giovanni Destri, merciaio, in un fondaco presso piazza Beverini teneva balle di stoccafisso e rubbi di fagioli dall’occhio. Nato a fine Settecento, morì che alla venuta dell’Arsenale mancava una decina d’anni. Lo conosciamo perché Ubaldo Mazzini recuperò il brogliaccio dove registrava i suoi affari e insieme annotava diligentemente le notizie, nostrane e non, di cui veniva a conoscenza: dalla posa a terra di alberi che allora non si tagliavano, al matrimonio di Napoleone. Scritto in una lingua sgangherata dove l’ortografia non è l’ospite d’onore e la fantasia è indispensabile per capire che cosa Giovanni voglia dire, è comunque testimonianza preziosa per conoscere il borgo allora ancora anonimo, ignaro del grande balzo che avrebbe presto compiuto. Il grand’Ubaldo ha il merito di elevare questa men che cronachetta alla dignità di documento, forse già sbeffeggiando con questo atto chi è convinto che solo in archivi più o meno polverosi si trova il materiale per ricostruire il passato.
Così sappiamo che “sabbo ventidue Giugno 1805 alle ore dodici doppo la mezzanotte tale Gaetano Roffi di Angelo Legnajolo” abbatte per ordine del Governo il secondo Albero della Libertà eretto alla Spezia. Subito l’Ubaldo chiosa che il primo, innalzato in piazza del comune (oggi Beverini) il 25 giugno 1797, lo tirarono giù le milizie austriache il 2 agosto di due anni dopo, e che il secondo fu eretto l’ultima domenica di agosto del 1800, o la prima di settembre: siamo, come si vede, in clima di anniversari e ricorrenze.
Non si pensi che l’Ubaldo fosse un acceso giacobino. Tutt’altro: aperto sì, ma con juicio.
Lo si vede, ad esempio, in un articolo scritto sul La Spezia del 16 giugno 1894, poco più di 120 anni fa (altra ricorrenza). Recensisce un libretto appena uscito che dice del fervore rivoluzionario che anima la Spezia contagiata dal “soffio di libertà che aveva inebriato le plebi italiane con il suo sublime entusiasmo”. È atmosfera così diffusa che pervade ogni azione del popolo: si alzano gli alberi della libertà, vi si cantano intorno canzoni mai udite, si sventolano bandiere mai viste. È un desiderio di nuovo che sembra spargersi come germe di epidemia che muta tutto, o quasi. “Intangibile resta solo la religione cattolica” cui però è demandato di illustrare con il catechismo i dogmi della nuova fede profana. Li propaganda anche l’abate Melchiorre Cesarotti, quello di Ossian, che è diffuso dalla prima stamperia spezzina. Poi, mentre guarda all’attualità, l’Ubaldo osserva che la voce delle novità si fa sempre più fioca finché resta solo il disincanto di chi vede agitarsi intorno a sé cose che non sono però più capaci di appassionare, tanto meno di infiammare.
È impietoso Mazzini, ma chiaramente parla del suo oggi mentre osserva lo ieri su cui a modo suo riflette. Ne traccia la storia che forse serve proprio a questo: fornirci di occhiali attraverso cui filtrare la luce, più o meno bella secondo il punto di vista di chi li inforca, della contemporaneità.
PS: Questo è il numero 202 della rubrica. Festeggio il bicentenario solo ora, al ritorno da un viaggetto. Aiutatemi, per favore, a soffiare sulle candeline. Sono così tante. Ma risparmiate il fiato: il 300 è dietro l’angolo!