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Luci della città

Perchè il lavoro è un diritto

di Giorgio Pagano

La Spezia, cantiere del Muggiano, la portaerei Cavour (2011)  (foto Giorgio Pagano)

“Bisogna insegnare ai ragazzi di oggi che il lavoro non è un diritto”, ha detto Giuseppe Bono, neopresidente di Promostudi, la fondazione che gestisce l’Università spezzina, nonché amministratore delegato di Fincantieri. Qualcuno si è indignato: la Cgil, Rifondazione Comunista, l’assessore comunale Basile. Leggiamo le sue parole: “Ho il massimo rispetto per l’impresa e il mercato, ma non possono diventare il modello a cui ridurre la società. Le affermazioni che ha fatto Bono sono gravi e mettono in discussione un principio fondativo della Costituzione”. Ma il Sindaco Federici l’ha subito zittito, imputandogli una “logica da politicante”. La domanda al Sindaco della giornalista della “Nazione” e la risposta del Sindaco sono davvero un segno dei tempi. Ecco la domanda: “In un Paese che ha una tra le più alte percentuali di disoccupazione giovanile in Europa, che cosa c’è di tanto scandaloso nel dire che non esiste un diritto al lavoro? Abbiamo ancora bisogno di negare l’evidenza in nome dei principi?”. Io avrei risposto: “E’ proprio nel nome dei principi che dobbiamo non negare ma combattere ciò che oggi, purtroppo, è l’evidenza!”. Ecco invece la risposta del Sindaco: “Infatti. Guardiamo i dati della fuga in massa da parte degli italiani: si tratta soprattutto di giovani in cerca di lavoro! La disoccupazione giovanile sfiora il 50%. Questo è il vero scandalo. Però per alcuni proclamare che il lavoro è un diritto e raccontare al disoccupato di turno i bei principi è un alibi perfetto”. Ma che cosa si propone in alternativa ai principi della Costituzione e alla lotta per attuarli? Il Jobs Act e la sua conseguenza, cioè il girone infernale del popolo dei voucher? Certo, i principi costituzionali non bastano. Ma la democrazia non è altro che lotta per la democrazia, è conflitto per attuare i suoi principi. L’alternativa è rinunciare a questi principi, per diventare del tutto subalterni all’economia e al mercato. Avere cioè altri principi: quelli secondo cui il lavoro non è più un diritto ma una merce.
La questione è formulabile in termini molto semplici. Cito Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte Costituzionale: “La Costituzione pone il lavoro a fondamento, come principio di ciò che segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l’economia. Oggi assistiamo a un mondo che, rispetto a questa sequenza, è rovesciato: dall’economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro”. Sono altri principi, rovesciati rispetto a quelli della Costituzione. Possiamo definire la Repubblica attuale, senza mentire, “fondata sul lavoro”? No, mentiremmo. Quindi bisogna scegliere: o i principi della Costituzione “fondata sul lavoro” o i principi di una nuova Costituzione “fondata sul mercato”.
Ma come è potuto accadere che la nostra Repubblica non sia più “fondata sul lavoro”? La risposta è che la politica ha lasciato fare alla forza delle cose. Una parte per non sapere cosa pensare, decidere e dire. Un’altra parte perché ha fatto una scelta politica precisa. Si sono chiamati fuori, perché a loro andava bene così. Per loro, la libertà è questa. Il mercato senza regole è l’ideale. Chi è forte, bene per lui, chi è debole, peggio per lui. Si dice che le ideologie sono morte, ma non è vero: un’ideologia, quella secondo cui il lavoro non è un diritto ma una merce, ha celebrato la sua vittoria, semplicemente lasciando che le cose andassero sulla base dei rapporti sociali di forza. La Costituzione dice che la politica non deve disinteressarsi dei diritti sociali. Ma è accaduto. Il disinteresse è stato una scelta. Ci si è adeguati alla logica del mercato, volenti o nolenti. Ed è esattamente su questo punto che è scomparsa la sinistra.
Zagrebelsky spiega bene perché il lavoro è un diritto, per il quale rivolgersi non a un tribunale ma alla politica. Ma la politica, lo abbiamo visto, ha fatto un’altra scelta. Non è vero, però, che la strada della politica costituzionale del lavoro non resti aperta. Si tratta di scegliere. Io cito spesso non un massimalista, un estremista, ma il padre del riformismo, Filippo Turati. Quando Turati volle dare un’autonomia culturale e politica al riformismo -una parola oggi vuota- scelse nel 1901 il progetto, assai radicale, di riforma fiscale di Wollemborg, che voleva introdurre il principio della progressività nel sistema tributario. Le risorse per creare lavoro si trovano, basterebbe far pagare le tasse a chi ha di più.
So bene che dire queste cose oggi significa “essere fuori dal mondo”, “controcorrente”. Il mio “Non come tutti” (2014) aveva non a caso come sottotitolo “Scritti controcorrente”. Ma oggi essere “controcorrente” è quasi un dovere. Chi sia dentro il mondo e chi fuori; chi renda vivibile e invivibile questo nostro mondo lo vedranno probabilmente i nostri figli e nipoti. Noi, qui e ora, dobbiamo dare prova di responsabilità. Giovedì scorso ho passato la giornata con Francesca Caferri, giornalista di “Repubblica”, che era a Spezia per due iniziative dell’Associazione Culturale Mediterraneo. Da lei ho saputo della morte del premio Nobel Dario Fo. Il verdetto della giuria di Stoccolma (1997) racchiudeva il segreto della sua arte: “Nella tradizione dei giullari medievali, fustiga i potenti e ridà dignità agli oppressi”. La Caferri, quel giorno, ha intervistato telefonicamente un altro premio Nobel, lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, dai cui libri tanto ho imparato sull’Africa. Anche a lui ha dato la notizia della morte di Fo. L’intervista è uscita ieri. Soyinka, che è stato anche in carcere per la libertà del suo Paese, ha detto: “Ci univa un certo modo di stare al mondo”. Controcorrente, dalla parte degli oppressi.

Post scriptum:
Chi volesse approfondire la riflessione sul punto “perché il lavoro è un diritto” può leggere il seguito delle considerazioni di Gustavo Zagrebelsky:

Il costituzionalismo delle origini ha compiuto un lungo cammino che giunge fino a noi. Se ciò non fosse avvenuto, lo considereremmo soltanto un’anticaglia, e non invece una forza ideale che tuttora alimenta le aspirazioni politiche delle nostre società. Per comprendere quanto lungo sia stato il cammino storico-concreto che è stato compiuto da allora, basta aprire, solo per esempio, la nostra Costituzione, al suo primo articolo: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”. Quello che, all’inizio della storia, era criterio di discriminazione dalla vita politica  – l’essere lavoratore –  è diventato fondamento della vita comune, della res publica. È diventato il principio dell’inclusione.
Che cosa c’è stato tra quel lontano esordio del costituzionalismo e questo punto d’approdo? C’è stata l’ascesa delle masse popolari, cioè del mondo del lavoro, alla vita politica e l’accesso alle sue istituzioni. C’è stata, in una parola, la diffusione della democrazia, sia nella sua dimensione politica che in quella sociale. Di questa diffusione sono figli la generalizzazione dei diritti e l’eguaglianza rispetto ai beni primari della vita, come la salute, l’istruzione, la previdenza sociale, e il rigetto del privilegio. Primario tra i beni primari, il lavoro è stato accolto come fondamento della democrazia repubblicana…
Il significato profondo del collegamento, stabilito nell’art. 1, tra democrazia e lavoro sta qui: la questione democratica è questione del lavoro. Che cosa importa la democrazia se non è garantito un lavoro che permetta di affrontare i giorni della vita, propria e dei propri figli, e di affrontarli con un minimo di tranquillità? La democrazia non è solo questione di regole formali, ma anche di condizioni materiali dell’esistenza, come dice l’art. 3, secondo comma, della Costituzione. Il lavoro è la prima di queste condizioni materiali…
Ma si comprende che tutto sarebbe vano se il lavoro, il bene-lavoro, non fosse un diritto e fosse invece una semplice eventualità, oppure una concessione, un favore da parte di chi può disporne. Come si potrebbe “fondare la Repubblica” su un’eventualità, un favore e non su un diritto? Infatti, unico tra i diritti, il diritto al lavoro è esplicitamente enunciato tra i “principi fondamentali” della Costituzione. Ma che genere di diritto è?
È chiaro che non si tratta d’uno dei diritti che i giuristi chiamano “perfetti”, diritti che il titolare può far valere in giudizio, nei confronti dell’obbligato, per ottenere il riconoscimento dell’obbligazione del secondo verso il primo e la sua condanna in caso d’inadempimento. Nulla di tutto ciò. L’accesso al lavoro deriva dall’equilibrio tra domanda e offerta sul “mercato del lavoro”, una condizione che a sua volta dipende da numerosi fattori d’ordine economico e sociale e non certo, primariamente, giuridico. Non esiste legge, non esiste tribunale al quale il lavoratore possa appellarsi per ottenere un “posto di lavoro”. Il lavoro, nell’attuale momento storico, non è un bene che esista in natura, sul quale possano accamparsi diritti. I posti di lavoro non si creano con la bacchetta magica dei giuristi o delle sentenze dei giudici. Di diritti in senso pieno si può parlare solo entro il rapporto bilaterale istituito con il contratto di lavoro. Ma nessuno, in un sistema basato sulla libertà, può imporre di contrattare e stipulare. Dovranno essere le circostanze a stimolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro…
Ciò significa che si tratta d’un diritto che non è tale, o che è solo un’aspirazione che la Costituzione retoricamente denomina diritto? Si osservi che la stessa domanda si può porre, ed è stata posta, con riguardo ad altri “diritti”, anch’essi previsti dalla Costituzione, che pure non possono essere fatti valere direttamente davanti a un tribunale: il diritto alla salute, all’istruzione, alla previdenza sociale, ad esempio; o anche il diritto di formarsi una famiglia, di potersi permettere un’abitazione. Ma chi oserebbe oggi dire che questi “diritti di giustizia” non sono diritti? Che riguardano i pochi che se li possono permettere e che, gli altri, peggio per loro o ci pensi la beneficienza o la provvidenza? Negare loro la qualifica di diritti significherebbe negare valore alle pretese che li riguardano.
Semplicemente, invece, dobbiamo dire che vi sono pretese di diverso tipo: alcune si configurano come diritti perfetti e hanno come luoghi tutelari i tribunali; altri hanno come referente la politica, concetto generale che, in termini costituzionali, si dice “Repubblica”: legislazione, amministrazione, forze economiche e sociali, cioè tutte le componenti di possibili “politiche del lavoro”. Che tali pretese si rivolgano non ai tribunali, ma alla politica, non significa affatto ch’esse siano meno urgenti, meno cogenti nei riguardi di coloro che devono dare loro risposte: che non siano diritti.
Si può dire, ovviamente, che le politiche del lavoro, in quanto, per l’appunto, “politiche” non possono essere costrette in alcun modo, se non con modalità politiche. Se lo potessero, sarebbero diritti perfetti. Invece si tratta di diritti condizionati da politiche congruenti. La Costituzione non può che fare due cose, predisporre le condizioni e le forme necessarie, che devono però essere riempite di contenuto perché il diritto sia reso attuale.
In verità, quando, con una certa enfasi ma non necessariamente con la consapevolezza del significato, si dice che “il lavoro non è un diritto”, si dichiara semplicemente che si aderisce non all’algoritmo della Costituzione -dal lavoro, alla politica, all’economia- ma al suo contrario  -dall’economia, alla politica, al lavoro -…
Ora si pone la domanda che nessun giurista vorrebbe mai doversi porre: l’effettività, cioè i rovesciamenti costituzionali di cui s’è detto, sono solo eventualità che possono correggersi, governare, contrastare? Oppure sono necessità che possono solo essere assecondate, perché ogni resistenza sarebbe vana? Siamo padroni dei rapporti sociali ed economici o siamo condannati al darwinismo sociale? Se vale questa seconda risposta, la Costituzione, per la parte del lavoro, dovremmo dirla antiquata, superata dalla forza delle cose. Se vale la prima, resta aperta la possibilità d’una politica costituzionale del lavoro. Chi deve parlare, e agire di conseguenza, sono le forze politiche, sindacali e culturali. A loro, la risposta.
Gustavo Zagrebelsky, “Fondata sul lavoro, la solitudine dell’articolo 1”, La Repubblica, 2 febbraio 2013