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I gioielli della Mazzini

Per “li secolari e senza gramatica”: le Vitae patrum nell’edizione di Leonardo Acate del 1474

Prosegue il tour virtuale fra gli scaffali della biblioteca "Mazzini" che apre i cassetti più ameni e presenta le proprie rarità.

Per “li secolari e senza gramatica”

Tra i testi di devozione più letti e diffusi nell’antichità si annoverano le vite, gli exempla e i detti dei Padri della Chiesa, che la tradizione ha attribuito a San Gerolamo, autore della Vulgata e che circolarono dapprima in forma orale e manoscritta ed in seguito, con l’avvento della stampa, furono impresse dai primi tipografi attivi in Europa, raggiungendo così un pubblico sempre più vasto. Si tratta in particolare delle vite dei cosiddetti Padri del deserto, eremiti e asceti che scelsero il ritiro spirituale dal mondo per dedicarsi alla scoperta dell’interiorità e della divinità.
La maggiore diffusione di queste storie, un vero e proprio testo classico del monachesimo orientale, fu resa possibile grazie alle nutrite volgarizzazioni che crebbero in numero nei secoli e tra le quali la più fortunata fu quella composta da Domenico Cavalca, frate domenicano del convento di Santa Caterina di Pisa, negli anni Trenta del secolo Decimoquarto. Il cenobio, all’epoca sede di un’importante scuola per la formazione dei predicatori, era dotato di una ricca biblioteca, tra le più antiche dell’ordine, con annesso scriptorium, da cui probabilmente Cavalca trasse i modelli per la sua versione delle Vitae e dove lavorò assiduamente per lungo periodo.
La traduzione rientrava nell’ampio progetto di evangelizzazione e predicazione in volgare, portato avanti dagli ordini mendicanti e dove le Vite dei Padri costituivano una fonte di profonda ispirazione per credenti di diversa estrazione sociale e culturale: ad uso delli “secolari e senza grammatica” come specifica Cavalca nel Prologo al testo. I racconti delle Vitae esercitarono infine una discreta influenza nelle arti figurative, come testimoniano alcuni affreschi nel camposanto monumentale di Pisa, ad essi ispirati. In epoca moderna il testo volgare delle Vitae patrum è stato inoltre e rimane tuttora una fonte primaria per lo spoglio lessicale finalizzato alla compilazione dei repertori dell’italiano antico e dei vocabolari etimologici.
Molto complesse sono le questioni filologiche legate alle Vitae patrum, di cui è uscita di recente (2009) l’edizione critica a cura di Carlo Delcorno, frutto di un lungo e impegnativo lavoro di ricostruzione filologica che restituisce il testo nell’originale versione pisana, dopo un attento confronto tra i testimoni manoscritti che appartengono alle due famiglie di codici tramandate (pisano-lucchese e fiorentina) e dove ogni minima variazione è segnalata e confrontata con i rispettivi modelli latini di riferimento.
Tra le prime edizioni a stampa delle Vitae patrum si annovera l’incunabolo stampato nel 1474 a Sant’Orso (Vicenza) da Leonardo Acate e di cui la biblioteca civica U. Mazzini della Spezia possiede uno dei pochi esemplari superstiti. Nel Gesamtkatalog der Wiegendrucke, l’imponente repertorio degli incunaboli curato dalla biblioteca statale di Berlino, ne risultano localizzate solamente sette copie, di cui cinque in Italia.
Leonardo Acate fu uno dei primi tipografi stranieri a stampare in Italia. Nell’ultimo quarto del secolo ed allo scadere del privilegio di stampa concesso dal Senato della Repubblica di Venezia nel 1469 a Giovanni da Spira, aumentarono in breve tempo le officine degli stampatori, “tra i quali sono rinomati fra gl’Italiani Bartolomeo di Cremona, Nicola Girardengo, Giacopo Rosso e molti altri. Ed il Francese Nicola Jenson, che dal 1470 al 1478 stampò un gran numero di classici latini. Tra i tedeschi sono anco rinomati il Waldorf di Ratisbona, che nel 1470 stampò un Cicerone: De Oratore […] e Giovanni di Colonia che stampò il Terenzio nel 1471, quindi il Plauto; e Leonardo Acate di Basilea (cfr. Francesco Giliberti, “Studi storici sulla tipografia intorno l’origine dell’arte della stampa”, Palermo 1870, p. 119).
Scarse sono tuttavia le notizie su questo tipografo svizzero, attivo in Italia a Padova e Vicenza dal 1472 al 1497, periodo in cui stampò una quarantina di edizioni di grande valore, tra cui classici latini e italiani (Virgilio e Petrarca), testi religiosi canonici, testi di grammatica greca (Costantino Lascaris), il “Dittamondo” di Fazio degli Uberti, il “Libro delle sorti” di Lorenzo Spirito Gualtieri ed i “Ruralia commoda” di Pietro de’ Crescenzi.
La versione di Acate delle Vitae patrum, che principia con la vita del Patriarca Giovanni l’elemosiniere, sembra essere proprio quella volgarizzata dal Cavalca: nell’incipit riporta: “in comenza lo quarto libro della vita di sancti padri” mentre il proemio recita: “proemio della infrascripta opera et di Zaccaria lo quale inprese ad esser pietoso dal patriarca capitulo primo”. Nel colophon troviamo riassunte le notizie principali sull’edizione: “expicit [sic.] vita sanctorum patrum deo gratias anno d.ni MCCCCLXXIIII. Compresso in santo Urso p. Leonardo dy Basilea. Duce de Venesia Nicolo Marcello”.
È un volume in secondo, stampato in caratteri romani e arricchito nel Proemio da una lettera capitale miniata e stemma con decorazioni a motivo floreale in fondo alla pagina. Di grande interesse è anche la legatura, in assi di legno rivestiti in cuoio con decorazioni a secco, fermagli con bindelle in cuoio, borchie metalliche e umbone decorati a motivo vegetale stilizzato.
Il libro è stato restaurato, forse a metà Novecento, dall’Istituto di restauro del libro di Monte Oliveto maggiore (Siena). L’incunabolo della biblioteca U. Mazzini presenta nella carta di guardia anteriore due interessanti ex-libris di possesso manoscritti di cui uno più antico e cancellato da tratti di inchiostro, ma ancora leggibile, da cui si ricava il nome di Neretto di Francesco Neretti, Patrizio fiorentino, mentre l’altro, più recente, riporta il nome di Luigi Altoviti “cittadino fiorentino” della nobile famiglia Altoviti. Da un confronto con lo stemmario delle famiglie fiorentine, curato dal Kunsthistorisches Institut in Florenz, si è potuto facilmente dedurre l’identità del blasone a pie’ di pagina del Proemio, con quella della famiglia Neretti di Firenze.