- In questi tempi di forzata clausura la cosa più difficile è l’organizzazione del tempo. Solo un mese fa sarebbe stato normale aggiungere libero per distinguerlo da quello impegnato nel lavoro, nell’attività casalinga, nelle relazioni con le parti della famiglia dislocate altrove.
Oggi la distinzione è fuori di senso. Carcerati in casa con unica evasione concessa l’uscita saltuaria per pane e companatico, consideriamo opportunità di svago persino la coda al supermercato che una volta ci avrebbe fatto sbuffare a più non posso. Poi, ritornati fra le mura domestiche, riprende la noia, unico diversivo essendo pensare a che cosa fare.
Prendi in mano qualche libro vecchio che ci trovi sempre qualche cosa di nuovo, si studicchia perché il pelo non si perde, si scarabocchia qualche riga che poi diventerà articolo.
Poi la tv. Siccome però i canali suonano concordi la stessa solfa, ci si butta su un film d’antan da cui magari può spuntare fuori un’idea con cui poi cercare di coinvolgere i lettori.
Propio aieidelà guardavo una pellicola ma così distratto che non ne ricordo il nome. Solo qualche fotogramma in cui i protagonisti si divertivano al Luna Park mi ha tolto dallo straniamento per riportarmi alla realtà, cioè a quando qualche tempo fa c’andavo anch’io.
Era uno dei pochi divertimenti che avevamo: il cinema al sabato sera, la radio le altre sere, l’allenamento dello Spezia il mercoledì pomeriggio e, quando venivano, circo e baracconi. Com’erano? Come i divertimenti di quei tempi là: giostre, autoscontri, dischi volanti, zucchero filato e poi, ma solo quando si era grandi, l’adrenalina del calcinculo, la grande giostra volante che mamma non doveva sapere altrimenti s’arrabbiava che lì c’è il pericolo, diceva.
Paragoni con oggi non saprei farne perché non li frequento più da tempo: i figli son troppo adulti per portarceli e i nipoti hanno altri svaghi. L’unica conoscenza che ho con l’odierno Luna Park è quando ne vedo le luci quando esco dalle Terrazze nello slargo anonimo che costeggia via Pertini.
Ma penso sia tutto diverso. Infatti, hanno il nome americanizzante e non si chiamano più baracconi, parola che bene definisce lo stato degli stands.
Neppure ricordo bene dove li mettevano anche perché la location spesso cambiava e dove c’erano gli spiazzi poi hanno costruito. Qualche volta stavano al Ventunesimo, oggi complesso Due Giugno. Era frequentatissimo perché gli alberi creavano tante nicchie dove i più abili convincevano le fantele a seguirli, inseguiti anche dagli sguardi invidiosi dei meno capaci.
Amici baracconi che senza il Covid-19 non avrei mai ricordato!
BERT BAGARRE