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Una storia spezzina

Una storia spezzina

I <em>brache mole</em> e il dialetto che cambia

di Alberto Scaramuccia

Il sole sorge sul Golfo

Nel 1916 uscirono postume le lezioni che Ferdinand de Saussure tenne all’Università di Ginevra. Fra le altre cose, sostenevano che qualsiasi parlata è un organismo vivente che, in quanto tale, nasce, si modifica ed eventualmente muore. Bella lezione che fondò la linguistica moderna ma che non mi pare particolarmente conosciuta sulle sponde del nostro Golfo dove a volte qualcuno si lamenta che non si parla lo spezzino come quando l’arsenale era ancora di là da venire, o era appena arrivato. Tuttavia, non sento altrettante lagnanze perché non si parla più l’italiano di Manzoni o addirittura di padre Dante. Si alzano querimonie se a mes-ciüa manca l’ormai anacronistico trattino dimenticando (secondo me, per mancanza di buone letture) che anche l’ortografia è una variabile temporale: 100 anni fa scrivevano doccie e passeggieri con una -i- in più che oggi farebbe consumare agli insegnanti fiumi d’inchiostro blu.
Dovremmo, io penso, invece chiederci perché non si parla più nessuna forma di dialetto che altrove costituisce espressione di comunità territoriale. Gli è che alla permanenza dello spezzino sono mancati testi documentari e, soprattutto, la consapevolezza identitaria che in una terra di fortissima immigrazione quale fu la nostra città dopo l’Arsenale, fu sempre cosa aleatoria. Oltretutto, la marea che arrivò dopo l’Arsenale (+173% nel ventennio 1861-81) mischiò le parlate creando da quel mix originale nuovi modi di comunicazione.
Bene, lo spezzino in quegli anni sì modificò: questo dicono De Sausure e la teoria, ma la prova scritta dov’è? Anche il bosone di Higgs era solo teoria finché non lo si trovò.
Ebbene, la prova scritta che lo spezzino dei sonetti dell’Ubaldo fu corrotto dall’immigrazione, c’è.
Brache mole, braghe calate, ad indicare il pusillanime o semplicemente il menefreghista, è parola consueta nello spezzino. Chi vuole, lo veda nel sempre utilissimo Dizionario composto qualche anno fa da Franco Lena. La ritroviamo, però, anche nella forma braje mole, ne Il Lavoro del 14 dicembre 1895, 3° pagina: il cambiamento registra una pronunzia diversa dalla tradizionale. A dirla così sono i tanti immigrati dalla terra di Tuscia: sopprimendo la -c-, lasciano spazio all’aspirazione che l’anonimo redattore compone inserendo al suo posto un segno grafico che suona come lo jota spagnolo: si scrive, ma non si sente.
Solo così è possibile spiegare la presenza di quel -j-, veramente inusuale nella grafia spezzina che compare nel giornale del tempo dei nostri bis, trisnonni: non la facile ricerca di effetti esotici, bensì la resa grafica della nuova pronuncia.