- Si discute della riorganizzazione di ristoranti e bar per riaprire i battenti mantenendo la sicurezza dal contagio. Non si sa come si possa conciliare il piacere delle trofie al pesto o di un buon caffè al tavolino con l’ormai famoso distanziamento sociale. Fra le ipotesi che s’avanzano, c’è quella di spostare all’esterno l’attività che fino a tre mesi fa si svolgeva all’interno, aumentando il numero dei dehors, la possibilità di sedersi all’aperto per consumare.
Che i pubblici esercizi godano di spazi fuori ormai non più novità a cui siamo abituati da non pochi anni, da quando si è pedonalizzato il centro storico, la rivoluzione che ha reso il pedone padrone (quasi) assoluto del traffico in quell’area.
Una volta invece, quando i calzoni scendevano giù a zampa d’elefante e la capigliatura non si scolpiva ma la si lasciava cadere languida sulle spalle, passavano auto e filobus dove ora ci sono tavolini e seggiole.
Per questo a Sprugolandia ogni bar contava solo sullo spazio interno dove si entrava con rispetto anche per l’arredamento che spesso aveva il fascino del liberty con le sue scaffalature in legno lavorata nell’eleganza del bassorilievo. Roba da essere tutelati dalle Belle Arti, rappresentavano festoni di frutta e fiori su cui stavano appollaiate come pappagalli sul trespolo bottiglie dalle tinte tanto inverosimili quanto allettanti. Prima ancora di gusto ed aroma, era proprio il loro colore ad ammaliare l’avventore trasportandolo con la fantasia in un paradiso tropicale.
Ci si sedeva attorno ad un tavolino di legno con il ripiano di marmo mischio, accomodandosi su una sedia il cui poggiaschiena erano tre legni incurvati che sostenevano sebbene fosse tanto il loro spazio vuoto.
Lì non ordinavi cocktail che non conoscevi e che nessuno avrebbe saputo preparare, ma, se era passata l’ora del caffè, ordinavi un liquore di una delle tante marche sponsorizzate da Carosello. Era novità se ti accompagnavano il bicchierino con una ciotolina di patatine, l’apericena non era stato ancora brevettato.
Noi andavano in un bar da cui vedevi il cavallo di Garibaldi, dal nome mai chiarito di “Cantieri”, forse si chiamava così il proprietario. Ci sedevamo in tanti e le fantele, miraggio di sperduti nel Sahara, erano, inutile dirlo, l’argomento clou. Poi venivano gli esami, le canzoni, la politica e nel nostro gergo il luogo di ritrovo non lo chiamavamo con il nome di battesimo ma semplicemente il caffè: la parlata non l’aveva ancora derubricato a baretto.
Da un po’ è malinconicamente chiuso; gli avventori si sono trasferiti nel bar sorto subito accanto.
Ha il dehor.