Alcune persone sono dotate di carisma e talento loro malgrado. La loro presenza si sente, riempie, significa. Malgrado loro. Enrico Casale (La Spezia, 1985) è una di queste persone. L’ho conosciuto nel 2013. Ci siamo dati un appuntamento, in centro, per pranzo, una domenica. Non ci eravamo mai visti prima, ma abbiamo passato buona parte della giornata insieme, raccontandoci un po’ di tutto. Nel tempo ho avuto la possibilità di vedere i suoi lavori teatrali, rendermi conto delle sue non comuni capacità di regista, scrittore, attore. Enrico, che fa parte degli Scarti dalla fondazione della compagnia, ha deciso, ormai tanto tempo fa, di vivere gioie e dolori del teatro e di farlo qui, alla Spezia. Sotto le piume multicolore dell’ironia e dell’esuberanza, si trova una personalità attenta, preparata e talentuosa. Il suo teatro è caratterizzato da quadri onirici, che nulla concedono alla spietata rappresentazione della realtà, nelle sue, talvolta, nascoste pieghe esistenziali, cui si aggiungono elementi di critica sociale.
Per accordarci sull’intervista, ci siamo visti a cena, da Caran, tre sabati fa. Nell’attesa di avere il nostro tavolo, Enrico ha incontrato e salutato almeno quindici persone, tra ex allievi, loro famiglie, conoscenti. Il brusio assordante di un ristorante spezzino il sabato sera – si sono festeggiati ben due compleanni, con tanto di luci spente, consegna della torta con candela accesa e coro di tutta la sala – non ci ha impedito di venire a capo dei temi su cui concentrare la nostra attenzione nell’intervista, nonché spaziare su questioni personali intime e significative.
Quando hai iniziato ad avvicinarti al teatro? Quali le circostanze favorevoli che ti hanno fatto incontrare il teatro?
“Mi sono avvicinato al teatro una domenica. Ero piccolo, avrò avuto tre anni. Ero in piazza Mentana con un pallone. Fuori dalla porta del Teatro Civico c’era Antonello Pischedda, imponente col suo vocione. Ho avuto paura e mi sono allontanato dal teatro deciso a non avvicinarmi più.
Ci ho riprovato due anni dopo, a cinque anni. In questo caso mi sono avvicinato ad una vecchissima copia dell’Amleto custodita gelosamente dalla mia famiglia. Avevo dei pennarelli colorati in mano. Un disastro. Ho distrutto quell’Amleto per sempre. I primi sensi di colpa non si scordano mai.
Qualche mese dopo, forse per il trauma causato dal precedente episodio, arringavo la famiglia in salotto ed esaltavo la figura di Shakespeare dipingendolo come un importantissimo musicista rock. Esistono anche dei video in VHS di quei comizi pro-Shakespeare.
Ma le vere folgorazioni, le ho avute quando nonna mi portava a Messa. Lì, in Chiesa, ho capito l’importanza del Rituale: quella cosa magica che ci fa stare tutti seduti ad assistere alle azioni e alle parole di un altro essere umano (prete o attore, poco mi importava) e che ci fa sentire immediatamente una Comunità. Come, per esempio, durante la Pasqua, quando i fedeli leggono le scritture, interpretando i personaggi della Passione o i cambi di “costume” dell’Officiante, i canti sacri e l’imponente scenografia della Chiesa. Avevo deciso: da grande avrei fatto il Prete. Indossavo una maglietta nera di papà, che naturalmente mi arrivava in fondo ai piedi, e costringevo la famiglia a fare estenuanti processioni per la casa. Le ostie le facevo con le sottilette Kraft. Rito, Gioco e Comunità. Parole e concetti che nel fare teatro, mi influenzano tuttora. In prima elementare incontro Andrea Cerri (da te già intervistato). Ci mettevamo a scrivere le “recite”. In qualche modo, non abbiamo mai smesso. In prima Liceo Artistico a Carrara, mi iscrivo casualmente ad una giornata di seminario sulla narrazione con Ascanio Celestini (ignoravo chi fosse). Folgorante. E’ il periodo tragico dell’adolescenza in cui ti vergogni del cambio di voce, di come sei fatto, in cui vorresti molto spesso essere invisibile. In un certo senso penso che cominciare a fare teatro a scuola, nei laboratori del Liceo Artistico, mi abbia salvato. Non che ora sia sano, ma potevo essere peggio. Quando ho scoperto che il teatro mi apriva mondi possibili e mi faceva essere, anche se per poche ore, “altro da me” è diventato necessario, come per molti adolescenti. Era la mia droga, la mia prima aspirazione. Niente a che vedere con l’ossessione molto contemporanea della ricerca di popolarità, anzi, volevo formarmi, cercavo Maestri”.
Quali sono le esperienze formative che ritieni più importanti di aver fatto?
“Di sicuro l’incontro con Renato Bandoli e la compagnia delle Pleiadi. E’ andata così: sempre in periodo liceale mi contattano e mi chiedono di lavorare assieme ad una compagnia di attori diversamente abili. Lo spettacolo, andato in scena per la prima volta in una palestra di San Terenzo, tratto dal Marat-Sade di Peter Weiss con la regia di Maurizio Lupinelli, era stato visto dai maggiori studiosi di teatro, operatori, artisti. Mi sembrò un’esperienza importante. Ero esaltato di farne parte. Ho cominciato a sviluppare pensieri sull’arte performativa, ho capito l’importanza del lavoro con quelli che alcuni chiamano “non-attori” (in questo caso i disabili) e che cos’è quella “forza del vero” che nessuna Accademia ti insegnerà mai.
Ma tanti sono i momenti, gli incontri, le serate di studio e discussione. Non si finisce mai di arricchirsi, di formarsi. Siamo sempre in formazione, poiché meravigliosamente vuoti e imperfetti”.
Ti senti di ricordare dei maestri, delle figure chiave per la tua formazione?
“Nel film Uccellacci e uccellini (Pier Paolo Pasolini, 1966), si dice che i maestri sono fatti per essere mangiati in salsa piccante. Non sono del tutto d’accordo. A parte il fatto che la carne fa male (e i miei maestri sono di carne e sangue), non mi sognerei mai di mangiare Massimiliano Civica, Michela Lucenti, Danio Manfredini, Cathy Marchand e tanti altri. Priverei il mondo di persone speciali che regalano bellezza. E noi tutti ne abbiamo bisogno. A parte gli scherzi di carattere cannibalico, Eugenio Barba dice che il vero Maestro è colui che scompare. Ti da tutto e poi si ritrae, ti da tutto e lui non c’è più. Ti rimane la sua sapienza. Sono d’accordo con Barba”.
Nella costruzione di un’opera teatrale, ricopri diversi ruoli dalla sceneggiatura alla regia, e spesso sei tra gli attori che lo interpretano. Fa parte di una pratica che hai acquisito o è una tua scelta funzionale alla riuscita dello spettacolo?
“Mi metto in scena solo quando lo ritengo necessario. Quando penso che quel determinato spettacolo ha bisogno di me. Non sento l’obbligo di essere per forza dentro uno spettacolo. E’ lo spettacolo che mi chiama.
Nell’ultimo lavoro, Faustbuch, c’era bisogno di me, della disperazione che provavo in quel periodo, della necessità di mettermi a nudo per parlare di un tema specifico: l’illusione del successo e il fallimento”.
Mi racconti qualcosa del lavoro che svolgi con i disabili, quale esigenza ti ha portato verso questa ricerca teatrale?
“Ormai da dieci anni conduco assieme alla psicologa Federica Vilardi, quello che chiamiamo “laboratorio disintegrato”, un percorso teatrale di integrazione fra persone diversamente abili e persone così dette normodotate, prima per conto della cooperativa sociale Isforcoop, all’interno di progetti scolastici e studenti con sostegno e arrivando poi, nel tempo, a coinvolgere anche persone adulte. Ad oggi siamo circa trenta attori, siamo un’armata convinta che il teatro possa veramente essere un atto politico e rivoluzionario nei confronti di una società che fa del pietismo verso i disabili un vanto e della commiserazione una convinzione “cristiana”. Non voglio vedere disabili, voglio vedere attori che giocano, che stanno bene di fronte ad un pubblico educato alla non-pena, che guarda con occhi lucidi e si commuove per quella verità, quella fatica che loro stanno mettendo in scena. Non certo per le disabilità. E io in tutto questo, a proposito di disabilità, a trentatré anni, non so andare in bicicletta e non so leggere l’orologio con le lancette, fatico ad allacciarmi le scarpe e a distinguere la destra dalla sinistra.
La distinzione, l'”infermierismo”, il “poverino, lo aiuto tanto non è buono”, sono alla base della discriminazione. Bisogna stare attenti.
Tu, nella domanda hai usato una parola molto giusta: esigenza. Dopo diverse produzioni fuori città, mi sono reso conto che era fondamentale per continuare il mio percorso, fuggire dagli attori, o meglio, dai vizi degli attori. Sto parlando di vizi scenici ovviamente. Nelle persone che frequentano il laboratorio disintegrato ho trovato quella freschezza, quella spontaneità che cercavo. E’ un privilegio poter condividere il palco con loro. Finalmente il teatro torna ad essere un gioco, un avvenimento che si sta veramente svolgendo in quel momento di fronte al pubblico. Libero, spontaneo, fanciullescamente provocatore. Ognuno con le sue capacità, con le sue potenzialità. Se qualcuno non ha l’uso della parola diventa suono, se a qualcuno manca una mano, gliene prestiamo cinquantotto. E ridiamo. Loro sono diventati la mia famiglia. Quello che non mi ha fatto scappare ancora definitivamente dalla Spezia.
Un altro aspetto di cui mi hai parlato è il lavoro in carcere. Anche in questo caso mi sembra un territorio difficile, che però tu riesci a penetrare con efficacia e sensibilità.
“Il territorio non è difficile, ti assicuro. Basta escludere con volontà dalla mente l’ambiente carcere. Abbiamo, nel 2018, il dovere di stracciare anche la definizione di “teatro sociale”. Questa è cosa vecchia, anni settanta, come dico spesso. Non è che se un attore è zoppo allora è teatro sociale.
Se tu elimini queste concezioni dalla testa e dai la giusta dignità a chi lavora, si espone, suda e grida e fatica sul palco, siano essi detenuti, disabili, adolescenti o anziani….cosa rimane? Finalmente il Teatro. Anche grazie ad un consistente percorso di formazione nel carcere di Volterra con Armando Punzo, ho spalancato gli occhi. Quelli sono attori, non ci importa che siano detenuti, non ci interessa che cosa hanno combinato fuori, non vogliamo esporli come scimmiette ammaestrate per far dire al pubblico “poverini, che bravi che recitano”. Non è questo il dovere del teatro. Non può redimere da niente. Il teatro in questo caso è quella zona di libertà o di evasione (come scherzando diciamo sempre durante il laboratorio) che elimina il carcere. Che abbatte davvero le mura. L’altro giorno un detenuto mi ha detto: “il teatro è una preghiera”. Forse ha ragione”.
Con gli Scarti lavori da anni con i ragazzi delle scuole superiori alla costruzione di un pubblico consapevole verso le pratiche teatrali. Come si svolge il lavoro con gli adolescenti e i giovani?
“Per parafrasare Buchner: “L’adolescente è un abisso, vengono le vertigini a guardarci dentro”. Anche questo è un pensiero comune. A volte ci casco e me lo chiedo anch’io: “Ma dietro quei piccoli schermi che illuminano di blu le loro facce, cosa ci sarà? C’è ancora un desiderio di vita? Dietro quest’apparente disinteresse verso le cose del mondo, verso la bellezza, pulsa un cervello? ” Eh, ma è un tranello! Loro sono furbi, si nascondono. Devi scavare, cercare la chiave, devi scovarli e quando li hai catturati, ti assicuro che è fantastico. Sono anime belle, pure, sono “puledri” come dice Marco Martinelli del Teatro delle Albe. Il Teatro ha bisogno di loro e loro hanno bisogno del Teatro. Andrebbe messo come materia curriculare dalle elementari il teatro. Se ci pensi, il teatro contiene tutto: dalla letteratura, alle arti visive, all’educazione al movimento e a quella musicale. Tiene uniti, spalanca possibilità rispetto al proprio carattere, sa creare un’altra qualità del vivere. Dai nostri laboratori sono usciti ragazzi che stanno intraprendendo importanti percorsi teatrali fuori città, arrivando ad esibirsi alla Biennale di Venezia, girando film in giro per l’Italia, vincendo premi teatrali prestigiosi. Come direbbe il mio papà: “Son sodisfazioni” (volutamente senza doppie).
E poi i ragazzi dei laboratori vedono tanto teatro anche grazie alla rassegna “FuoriLuogo”, che ospita da sempre grandi artisti. E’ fondamentale se aspiri a fare teatro un percorso di visione. Se vuoi fare il pittore e c’è una mostra di Van Gogh sei obbligato ad andare a vederla. Osservare, ricordare, mettere in pratica sbagliando. Riprovarci e ottenere risultati. Però ripeto, per ottenere i risultati, va trovata la chiave per aprire le porticine delle loro teste! Noi, nel teatro, come Guide (attenzione: non pedagoghi, non insegnanti), possiamo aiutarli a trovare questa chiave. Gli adolescenti vivono la difficoltà di essere preda di un cambiamento, di una trasformazione totale. Non sanno cosa saranno domani. Sono nel momento della vita in cui sono considerati bambini da una parte, però nel frattempo si richiede loro di essere adulti. Che periodo terribile! E’ una fase di transizione rigogliosa che può essere anche molto turbolenta.
C’è un grosso problema però nei giovanissimi di questi anni duemila se parliamo di teatro, e quindi di vita vera, di contatto fisico. Wim Wenders già trent’anni fa diceva che il massimo delle possibilità date dalla tecnologia (e mi riferisco se si parla di adolescenti ovviamente all’inseparabile cellulare), corrisponde ad una sorta di terrorismo dell’immagine. Mi spiego: attraverso i loro cellulari l’immagine non è più immagine della realtà, ma immagine virtuale. Viene, quindi, a cadere la realtà, lo statuto del reale.
E’ qui che il teatro può salvare i ragazzini, aiutandoli a sviluppare l’idea che è più autentica la relazione teatrale, dove vige il patto della finzione, che non la finta realtà dettata dai social.
Attenzione: non sono un anti-tecnologico (anche se sono imbranato). Penso fermamente che la tecnologia possa aiutarci, come la maggior parte delle invenzioni umane del resto. Il casino vero con le nuove generazioni è che spesso manca il grado di consapevolezza con cui questi mezzi si usano.
Ci stiamo avviando verso un’epoca dove le relazioni umane virano all’estinzione e sempre di più prende campo la relazione fra l’umano e il virtuale. E quindi si perde completamente il senso del Reale. E’ chiaro che a questo grado massimo di espansione dei mezzi tecnologici corrisponde pian piano la scomparsa di luoghi reali di scambio e di aggregazione delle relazioni umane. Lo vediamo tutti i giorni. Esistono luoghi, o come li chiamerebbe Marc Augè “non luoghi”, che non sono più rifugi dove ci si scambiano esperienze, dove circola il pensiero, sono luoghi di consumo. E’ molto difficile per i giovanissimi trovare luoghi in cui il pensiero si esercita criticamente nel confronto, anche con idee diverse. I luoghi che esercitano una funzione sociale sono ormai rari. Pensa solo agli Arci…ormai son quasi tutti ristoranti! Scherzi a parte, sogno un mondo dove i teatri sono popolati da giovanissimi che si scannano per un pensiero con la fisicità di relazioni vere. Il teatro può aiutarli. Il teatro ci aiuta a rigenerare un senso di realtà”.
Con gli Scarti, lavori in città e nel territorio ormai da dieci anni. Come descriveresti la scena culturale spezzina?
“La descrivo problematica. Me ne sono accorto in questi anni. Uno dei problemi della scena culturale spezzina sono certi “intellettuali” cinquanta- sessantenni, tipiche figure spezzine (da sempre esistite da quanto mi risulta) piene di livore verso il nuovo. Siamo famosi ovunque per questo! Ti faccio un esempio. Nel 2017, Fuori Luogo, la rassegna di teatro contemporaneo che si svolge al Dialma Ruggero, viene candidato come progetto speciale ai premi Ubu, praticamente gli Oscar del teatro italiano. Questa la motivazione della giuria: “Fuori Luogo La Spezia è un chiaro esempio di collaborazione tra artisti e operatori che riunisce Gli Scarti, CasArsA Teatro, e Balletto Civile – per l’impegno nella produzione di giovani gruppi indipendenti, ospitati anche in lunghi periodi di residenza, unito alla capacità di portare su un territorio “impermeabile” al nuovo alcune importanti voci del contemporaneo, stimolando su un altro versante il giovane pubblico attraverso numerose attività di laboratorio”
“Territorio impermeabile al nuovo”. Capito? Considera che i premi Ubu sono decretati da sessantaquattro critici che lavorano su tutto il territorio nazionale. Mica pizza e fichi. Eppure la nostra bela Speza è vista così. Ed è la verità. C’è una paura tremenda rispetto a quello che è novità, alle cose che spostano, che smuovono giovani. E non è totalmente un fatto di Amministrazioni secondo me. E’ proprio nello spezzino tuttologo (tante informazioni e poca conoscenza) il problema. C’è una sorta di superiorità che proprio non capisco e, se ti devo dire la verità, spesso mi fa sorridere. Però questi signori lasciamoli sfogare su facebook (social grazie a Dio usato sempre meno dagli adolescenti). Torniamo a parlare di cose serie. Si diceva, Cultura. C’è una tendenza generale, mi sembra, non solo alla Spezia, ma in tutto il Paese che è pericolosa per la cultura. Mi spiego: è il paese dei Festival, che danno da mangiare più agli organizzatori che agli artisti; è il paese in cui si cerca di fare i fuochi d’artificio con la Cultura e quindi di creare grandi eventi a discapito di quello che la cultura dovrebbe veramente essere: un esercizio quotidiano di scambio. Che cosa lascia il grande evento fine a se stesso per accontentare la massa? Diventa tutto vetrina, si consuma cultura mordi e fuggi, fast food. Spesso c’è il rischio del supermercato culturale. Prendo, porto via, consumo, digerisco, defeco.
Ci dimentichiamo spesso che “cultura” viene da “colere”, cioè “coltivare”. Quindi la coltivazione della sapienza e della creatività umana. Questo perché sia cultura, come la intendo io, può avvenire solo attraverso processi molto lenti e non con fuochi d’artificio che si consumano nel tempo di un’esplosione (nulla contro i fuochi ci mancherebbe, li uso come metafora). E’ difficile esercitare e praticare la Cultura perché siamo troppo abituati al consumo culturale piuttosto che alla produzione culturale quotidiana.
Non si parla mai invece di CulturE, di quelle degli altri, di quelli che arrivando in Italia, portano la loro. Si tende a non considerarle come ricchezze, queste culture. Non si considerano proprio. Questo è un problema che alla Spezia è molto evidente. Io ad esempio, che sono fra quelli che pensano che Piazza Brin sia uno dei luoghi migliori della città, ho voglia di essere invaso dalle culture che lo “straniero” mi porta. Su questo punto, mai come in questo momento storico, siamo purtroppo ancora molto indietro”.
Sei una figura istrionica e di grande talento. Molti ti riconoscono in città, sanno chi sei. Come vivi questa popolarità?
“A questa domanda ti rispondo con una domanda: Ammesso che sia vero (e non lo è) che significa essere popolari in una città come La Spezia?”.
Come pensi di poter incidere in futuro sulla scena teatrale locale e nazionale?
“Non credo mi interessi incidere, mi interessa esprimere una mia arte (ammesso che io la possieda). Mi interessa ricercare una Bellezza là dove riesco a trovarla”.
La caparbietà, perseveranza e sincerità con cui Enrico porta avanti la sua ricerca teatrale gli hanno valso, nel tempo, riconoscimenti a livello nazionale e continue gratificazioni di pubblico. Il suo lavoro a stretto contatto con chi si trova in situazioni di disagio, diverso da quello in cui ci troviamo tutti, gli permette di portare gioia ed entusiasmo, dove non è scontato trovarlo. A dispetto di una sua idiosincratica tendenza ad avvertire un persistente malessere interiore, è dispensatore di humour contagioso e sapere fortificatore. La scorsa settimana era a Caserta con il suo ultimo spettacolo Faustbuch, e poi a Modena per un seminario con assistenti sociali che operano in carcere e giovedì era a Milano per partecipare ad un incontro nazionale delle Non-Scuole. Il suo legame con la città, però, rimane sempre molto forte. Come mi ha scritto, a margine delle risposte per questa intervista: “Ora è notte fonda qui a Milano. C’è la nebbia, il freddo e ho finito le sigarette. E domani si rientra a Spezia. E come sempre al ritorno, quando sto un po’ fuori per lavoro, appena vedo la ciminiera dell’Enel dopo la galleria vorrei fare inversione a U e tornare da dove sono venuto. Ma poi mi ricordo che a Spezia la nebbia non c’è mai”.