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A Lerici, nel borgo pisano

di Piero Donati

L'architrave di Santa Marta

Ai piedi del castello di Lerici, nel punto più protetto dell’insenatura, sorge il cosiddetto borgo pisano, cioè la parte più antica dell’abitato, il cui appellativo rimanda agli anni in cui Pisa, prima della riconquista genovese (1256), deteneva il controllo dello scalo e di tutta la costa apuo-versiliese. Al borgo, cinto di mura, si accedeva attraverso una porta ancor oggi esistente, protetta da una torre attestata dalla cartografia settecentesca.
All’interno del “borgo pisano” sorgeva la chiesa di Santa Marta (un’intitolazione che potrebbe collegarsi all’azione evangelizzatrice attribuita alle sorelle di Lazzaro nell’arco costiero che arriva a Marsiglia), alla quale, come alcuni ipotizzano, spetterebbe questo architrave marmoreo dei primi decenni del secolo XV, poggiante su mensoline coeve (foto Marco Greco). La presenza, ai due lati di uno stemma scalpellato, di due pavesi recanti la croce di Genova e l’emblema di Lerici (il leccio, in latino illex), certifica che l’edificio al quale questo portale apparteneva era stato costruito dalla comunità lericina e ad essa apparteneva. Gli elaborati girali che incorniciano i due pavesi e la forma a mandorla rovesciata di questi ultimi rimandano ad un contesto stilistico di primo ‘400, caratterizzato dal dominio delle eleganze tardo-gotiche; di grande interesse è la sopravvivenza, soprattutto nella parte sinistra, di lacerti dell’antica policromia, i quali ci ricordano che il colore era parte essenziale della scultura litica, e non solo di quella lignea, fino agli inizi del secolo XVI, come attesta, restando in ambito lericino, il polittico dell’oratorio di San Bernardino, uscito dopo il maggio 1529 dalla bottega del defunto Domenico Gare detto il Franciosino.
La conformazione di questo architrave trova corrispondenza in esemplari tuttora visibili a Genova (Via della Maddalena) e alla Spezia (Via Calatafimi 34); l’esecuzione spetta probabilmente a lapicidi attivi a Genova, anche se non si può escludere a priori la provenienza da una bottega pisana, data l’egemonia esercitata, a Genova come a Pisa, dagli intagliatori di origine lombarda, egemonia che dà luogo, fin verso gli anni Quaranta del secolo, ad una sorta di koiné linguistica.
Lo stato di degrado di questo manufatto marmoreo è evidente, ed è altrettanto evidente che una incauta pulitura, non condotta da mani esperte, potrebbe causare danni irreversibili. Sarebbe auspicabile che nel dibattito elettorale in corso – a Lerici si andrà a votare in concomitanza con le elezioni regionali – il destino dei beni culturali presenti nella cittadina e la possibilità che la loro corretta manutenzione faccia nascere delle opportunità lavorative occupassero un posto non meramente accessorio, fra quelle “varie ed eventuali” di cui ci si dimentica in fretta ad urne chiuse.