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Luci della città

Luci della città

Il sottomarino giallo e il potere al popolo

di Giorgio Pagano

New York, Central Park, Strawberry Fields Memorial  (2007)

Qualche giorno fa, in spiaggia, il canto di un bambino mi ha distolto dalla lettura. Il bambino, che ho poi scoperto essere figlio di un’italiana e di un inglese, ha cantato per intero -e molto bene!- “Yellow submarine” dei Beatles. Ho pensato che pochi come i Beatles hanno regalato alla razza umana una così buona dose di gioia di vivere. E che cinquant’anni dopo -la canzone “Yellow submarine” è del 1966, ma il film-cartoon e il disco sono del 1968- questa loro qualità è rimasta intatta. Me ne sono convinto ancor di più domenica scorsa a Lucca, al concerto di Ringo Starr, che insieme a Paul McCartney è l’unico ex Beatle in vita. Paul lo ascoltai a Milano nel 1989, in un memorabile concerto al Palatrussardi, che fu anche una sorta di “riappacificazione ufficiale” con il suo passato nei Beatles, perché la metà delle canzoni inserite in scaletta portavano la firma Lennon-Mc Cartney: l’ultima canzone, prima dei bis, fu “Hey Jude” -intitolata originariamente “Hey Jules” e rinominata in seguito per motivi fonetici “Hey Jude”- scritta nel 1968 da McCartney per confortare Julian, il figlio di Lennon, nel momento del divorzio tra il padre e Cynthia Powell. Ringo, invece, non lo avevo mai sentito dal vivo. Da molti anni è tornato in pianta stabile ai concerti con la All Starr Band, che è sempre stata formata da strumentisti d’eccezione, attratti dall’idea di suonare accanto all’ex batterista dei Beatles. E’ stato un bellissimo concerto, anche se con poche canzoni dei Beatles, perché ogni strumentista ha inserito nella scaletta pezzi del suo gruppo originario. Ma non è mancata “Yellow submarine”, cantata da Ringo e da tutto il pubblico.
La canzone, scritta da Paul e da John, fu un vero happening, un’esplosione di gioia collettiva: è piena di scherzi, battute, effetti sonori con campane, fischietti, catene, bicchieri, soprattutto per volontà di John. Gino Castaldo, nel libro “33 dischi senza i quali non si può vivere”, rivela che fu usato anche un registratore di cassa, lo stesso che i Pink Floyd usarono sette anni dopo per registrare “Money”. Nel coro c’erano anche Brian Jones, fondatore dei Rolling Stones, autore dei clangori di vetro in sottofondo, Marianne Faithfull e perfino Donovan, che contribuì al testo suggerendo le parole “sky of blue, sea of green”. Ringo canta sempre “Yellow submarine” nei concerti perché è una canzone scritta anche per lui: colpisce infatti per il timbro e la modalità di canto tipica e peculiare di Ringo. Paul ha affermato in molte occasioni che lui e John gli scrivevano su misura le canzoni da cantare, scegliendo le note giuste per la sua estensione vocale.
A prima vista “Yellow submarine” sembra incarnare la parte più fanciullesca dell’immaginario dei Beatles: non a caso la cantano anche i bambini. Ma classificare “Yellow submarine” solo come un divertissement infantile sarebbe fare torto al genio dei Beatles. In realtà, il film-cartoon (originato dalla canzone e poi diventato disco), di cui si festeggiano i 50 anni il 17 luglio, è il contributo più efficace dei Beatles allo spirito ribelle e tumultuoso del loro tempo.
Come ha scritto Matteo Cruccu sul “Corriere della sera” dell’11 luglio, “i colori vivaci, la psichedelia in ogni fotogramma, i caratteri surreali dei personaggi oltreché l’ambientazione segnano una distanza enorme rispetto alla corrente, per allora, bontà disneyana”. E poi c’è la storia: “la battaglia tra bene e male, tipicamente figlia dell’epoca, gli anni ‘60 ingenui e anticonformisti disegnati, mentre i Beatles di cartone si battono contro i Biechi Blu, come una traduzione un po’ polverosa renderà in italiano i Blue Meanies, i mostriciattoli amici del grigio e del silenzio”.

I BEATLES E LA NASCITA DI UNA “COMUNITA’ GIOVANILE”
Negli spazi espositivi di Fondazione Carispezia è stata esposta nei mesi scorsi la bella mostra “Astrid Kirchherr with the Beatles”, una retrospettiva che ripercorre la storia degli anni formativi dei Beatles nell’Amburgo del dopoguerra -i cosiddetti “Hamburg Days”- attraverso gli scatti della fotografa tedesca che non solo immortalò il gruppo negli anni iniziali della carriera, ma ne influenzò profondamente lo stile trasformandolo in quello che tutti oggi conosciamo. Fu la Kirchherr che rivoluzionò il look del gruppo grazie al suo spiccato senso stilistico: le giacche di pelle, gli stivali alla texana e i capelli con la banana lasciarono presto posto a completi, camicie e al più minimale taglio a caschetto che anche la fotografa sfoggiava e che sarebbe diventato presto uno dei simboli della band.
La mostra ci aiuta a capire quanto fosse grande il fascino dei Beatles presso i giovani di allora e quanto fosse radicata la “Beatlemania”: forse il più vasto e travolgente fenomeno di divismo nel Novecento. Alla fine del secolo scorso, un’indagine sociologica condotta tra le americane bianche accertò che quelle tra loro che erano state teen agers negli anni ’60 ricordavano quei tempi sulla base non del calendario ma dell’uscita dei dischi dei Beatles. Anch’io ricordo perfettamente i loro dischi dal ’67 al ’69, l’anno dello scioglimento. Dai tredici ai quindici anni di età mi accompagnarono “Penny Lane”, “Strawberry fields forever”, “Sgt. Pepper’s lonely hearts club band”, “Yellow submarine”, “With a little help from my friends”, “All you need is love”, “Lady Madonna”, “Hey Jude”, “Come together”, “Get back”, “Let it be”… Nacque, attorno ai Beatles, una “comunità giovanile”.
Le loro canzoni, a volte semplici, a volte avveniristiche, diventarono il simbolo della presa di consapevolezza della gioventù di essere la nuova forza del cambiamento. I Beatles vissero il ’68 come se fosse il loro cortile di casa, sintonizzati sul meglio dell’energia che circolava nel mondo. Lo spirito dei tempi fu afferrato dalla fiabesca “Yellow submarine” e da tante altre canzoni e poi, dopo lo scioglimento, sempre più dalla musica di John Lennon. Già “All you need is love”, del 1967, trasmetteva un messaggio di impegno collettivo di pace e amore. Fu per Lennon il primo passo per diventare attivista per la pace. Decisivo fu per lui l’amore con l’artista concettuale Yoko Ono. Quello che John e Yoko volevano era una rivoluzione culturale che incoraggiasse la realizzazione personale, una rivoluzione che venisse dalle persone e non dai leader. Nel 1969 Lennon scrisse la canzone “Give Peace A Chance”, nel 1970 “Working class hero”, nel 1971 “Power to the People”. In un’intervista disse: “Tutti sanno che è la gente ad avere il potere: tutto quello che dobbiamo fare è risvegliare il potere nel popolo”. Sempre in quell’anno John scrisse “Imagine”, una bellissima canzone di speranza per il mondo, che ci chiede di vedere noi stessi in quanto popolo del mondo e non come individui definiti da cittadinanza, religione, colore, classe sociale.
Negli anni ’80 mi chiesero in un’intervista quali personalità della cultura avessero più influito nella mia formazione. Ricordo che risposi: “Pier Paolo Pasolini e John Lennon”. Anche se Pasolini non amava affatto i Beatles. Però entrambi mi insegnarono a immaginare un mondo privo di pregiudizi, di ingiustizie e di guerre. Furono due personalità eccentriche, complesse, tormentate, scomparse tragicamente, che riuscirono a fare dell’arte il mezzo tramite cui esprimere la propria interiorità e uno sguardo “eversivo” sul quotidiano.
E allora come si fa a non voler bene a Ringo Starr? Domenica, come fa da diversi anni, ha lanciato la campagna “Peace & Love”: bastava postare #peaceandlove, pensarlo, pronunciarlo ad alta voce. Un mantra che Ringo ha ripetuto di continuo durante il concerto: un atto semplice, niente di eclatante, ma che in questi tempi di chiusura e paura dell’altro acquista un valore diverso. L’ultima canzone del concerto non poteva che essere “With a little help from my friends”, in un coro felice prima che il brano si intrecci con “Give Peace A Chance”, l’inno alla pace di John Lennon.

Post scriptum:
La foto in alto è stata scattata al Central Park, vicino al Dakota, il palazzo dove John Lennon viveva e davanti al cui portone fu ucciso da uno squilibrato l’8 dicembre 1980. Raffigura lo “Strawberry Fields Memorial”, che venne inaugurato in occasione del quarantacinquesimo anniversario della nascita di Lennon, il 9 ottobre 1985. Il mosaico è stato creato con lo stile e la tecnica della calcada portuguesa. Fu realizzato in Campania da artigiani della zona vesuviana e donato al New York City Council dal Comune di Napoli. L’opera riproduce un mosaico pompeiano conservato nella stanza n. 58 del Museo Archeologico di Napoli. Ogni giorno ammiratori di John Lennon si recano al Memorial per portare candele o omaggi floreali.
La foto in basso è stata scattata in piazza Napoleone a Lucca l’8 luglio 2018, in occasione del concerto di Ringo Starr e della All Starr Band.