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Luci della città

Il socialismo spezzino e le sue ragioni

di Giorgio Pagano

Il Golfo dei Poeti dal Monte Castellana (2010)

“Chi sono i socialisti?” Forse fu questa la prima imbarazzante domanda che il piccolo Agostino Bronzi, che poi diventerà Sindaco di Spezia designato dal CLN dopo la Liberazione, Presidente della Provincia e senatore, rivolse al padre. Così immagina Angelo Landi, nel suo saggio pubblicato nel libro “Socialismo spezzino 1892-1945. Appunti per una storia”, curato dal “Centro Studi Agostino Bronzi”, che contiene contributi anche di Maria Beghi, Andrea Cerri, Laura Lotti, Pino Meneghini e Loredana Vergassola. Landi continua pensando che la risposta non doveva essere stata diversa da quella che, in circostanze analoghe, da un padre pur esso borghese benpensante, aveva avuto un coetaneo di Bronzi, quell’Antonio Greppi che sarebbe diventato Sindaco di Milano: “I socialisti sono quelli che vogliono l’eguaglianza di tutti. La cosa più impossibile di questo mondo”. “E allora perché la vogliono?”.“Perché sono degli illusi”. Sono questi “illusi” che stimolarono la curiosità di Greppi, di Bronzi e di tanti altri, contribuendo a farli diventare, giovanissimi, militanti socialisti, “apostoli” di una religione laica portatrice di progresso, basata sulla “predicazione” e sull’esempio.
Gli autori di questo libro importante hanno fatto un grande lavoro analitico, facendo rivivere la storia di un’idea generosa, che tanto fece per il riscatto del proletariato, per l’emancipazione delle donne, per l’educazione e la protezione dei bambini, e che per questo è così radicata nelle nostre terre. Il volume parte dalla cospirazione mazziniana risorgimentale. Quando la vita della vecchia Spezia fu sconvolta dall’Arsenale e dall’industrializzazione, le masse popolari vennero inizialmente influenzate dalle Società di Mutuo Soccorso di matrice mazziniana. Un versamento mensile consentiva agli iscritti di richiedere un sussidio giornaliero in caso di malattia o di incidente e un rimborso per le spese sanitarie, di ottenere una pensione di vecchiaia o di invalidità, di frequentare le scuole sociali, di accedere alle cooperative per la costruzione di case. I lavoratori non avevano alcun diritto, il mutualismo era la loro sola possibilità di sopravvivenza.
Dal 1870 cominciarono a fare proseliti prima la propaganda anarchica e poi quella socialista, in competizione tra loro. I primi arsenalotti “sovversivi” furono arrestati nel 1878. Nel 1892 le autorità contarono più di mille anarchici. Quand’ero ragazzo, i più anziani di Migliarina, il mio quartiere, mi raccontavano del circolo anarchico migliarinese “Né Dio né padrone”. La figura di maggior spicco del movimento anarchico spezzino fu Pasquale Binazzi, meccanico in Arsenale, direttore de “Il Libertario” e uomo d’azione giramondo, al quale la città ha dedicato una via nel centro storico. Da noi il socialismo si propagò più tardi, rispetto a molti altri centri. Ciò si spiega con il fatto che la classe operaia spezzina era cresciuta tumultuosamente, proveniva dal mondo agricolo ma anche da molte altre regioni. Il suo cammino fu, per questi motivi, molto travagliato. Mancava, inoltre, lo scontro di classe diretto. Gli operai dell’Arsenale non avevano davanti un padrone, ma lo Stato. E nelle piccole fabbriche la proprietà non era quasi mai spezzina, ma lontana dai luoghi della produzione. Va aggiunto che i socialisti si opponevano alle spese militari, e che gli arsenalotti temevano di perdere salario e lavoro: da qui una certa diffidenza.
Il primo episodio di lotta rilevante avvenne nel 1890, quando scioperarono gli operai della fonderia di piombo e argento di Pertusola, gestita da una compagnia inglese (la ciminiera si vedeva fino a pochi anni fa, nella collina sopra il Muggiano). Chiedevano un aumento salariale di una lira. Intervennero le truppe militari: i 120 operai addetti ai forni furono tutti licenziati e sostituiti da 90 braccianti rurali. Nel 1894 ci furono i moti di Lunigiana, duramente repressi. A poco a poco furono i socialisti a conquistare l’egemonia tra i lavoratori: la prima sezione del Partito socialista fu costituita nel 1895 alla Chiappa. La tendenza prevalente era quella dei socialisti riformisti “positivisti”, tra cui emerse subito la figura di Ubaldo Formentini, insigne intellettuale, che dal 1923 fu Direttore della Biblioteca civica, del Museo civico e dell’Archivio storico. Nel 1901 nacque la Camera del Lavoro, che organizzò le numerose leghe cittadine. I primi anni del secolo furono anni di lotte e di scioperi, alla Pertusola, all’Arsenale, al cantiere del Muggiano. Le varie componenti della sinistra si allearono in occasione delle elezioni nell’Unione dei partiti popolari, che nel 1909 superò alle amministrative il partito monarchico liberale di Prospero De Nobili. Nel Partito socialista ci fu sempre contrapposizione tra le due anime, quella intransigente e massimalista e quella riformista e gradualista. Spezia si schierò con la parte massimalista, ma di fatto operò in direzione riformista, sotto la guida di Formentini: la partecipazione all’amministrazione locale ne era il segno più evidente. Lo scontro divampò nel 1911: fu varata la nave da guerra Conte di Cavour, e il giovane Agostino Bronzi insorse contro il nazionalismo de “La Libera Parola”, il giornale del partito. Il volume ci fa conoscere, come ha fatto anche Alberto Scaramuccia nei suoi articoli su Città della Spezia, un Bronzi inedito, “enfant terrible”. Negli anni successivi non ci fu tregua tra le due correnti, fino alla sconfitta alle elezioni politiche del 1913, quando il Partito corse da solo e perse. Gli intransigenti denunciarono il tradimento dei riformisti, e la sezione di Spezia fu radiata dal partito. L’intransigenza riprese forza durante la prima guerra mondiale e il “biennio rosso” 1919-20. La parola “rivoluzione”, sull’esempio della Russia, echeggiava sempre più nell’aria. Alle politiche del 1919 il Psi spezzino divenne il primo partito con il 40% dei suffragi ed elesse il suo primo deputato, Angelo Bacigalupi. L’8 giugno 1919 oltre 3000 persone parteciparono ad un grande comizio contro il carovita, a cui seguirono otto giornate di sciopero generale. Ci furono due morti, Spezia innescò una lotta nazionale. Altri scioperi ci furono nel dicembre e poi nel gennaio e nella primavera 1920, fino all’occupazione delle fabbriche nel settembre: ma senza che gli operai ottenessero risultati significativi. Vennero i primi segni di cedimento, fino alla resa alla violenza del fascismo, nonostante i fatti di Sarzana del 21 luglio 1921. Nelle politiche di quell’anno Bacigalupi non venne rieletto. Nel 1922 vennero distrutte le sedi della Camera del Lavoro, dei partiti e delle cooperative. Nel 1923 venne chiuso l’Arsenale, e furono riassunti al lavoro solo coloro che avevano aderito al partito fascista. Molti operai emigrarono, e fu la Francia il loro Paese d’adozione. Anche Bronzi intraprese la via dell’esilio. Altri proseguiranno la lotta nella clandestinità.
Il libro si conclude ricordando il contributo dei socialisti all’antifascismo e alla Resistenza. Dalla fine degli anni ’30 operò in città un comitato clandestino socialista, di cui fu leader Bronzi, rientrato dalla Francia nel 1937. Oltralpe Bronzi era diventato riformista, sotto l’influenza di Filippo Turati e Leon Blum, e soprattutto della figura di Jean Jaures. Dopo l’8 settembre 1943, ai monti, l’iniziativa socialista si confonderà, in gran parte e a livello individuale, con l’intensa attività dei partigiani di Giustizia e Libertà; ciò fino all’agosto 1944, quando si costituirà la brigata socialista “Matteotti”, poi fusa con la brigata “Picelli”. Il comandante della nuova brigata “Matteotti-Picelli” fu Nello Quartieri (Italiano), comandante della “Picelli”, una delle primissime formazioni partigiane, con una storia molto ricca e travagliata (si veda, in questa rubrica, l’articolo “Il comandante Italiano e il segreto della felicità”). Un altro socialista protagonista della Resistenza, tra i tanti, fu Pietro Beghi, segretario del CLN, Prefetto di Spezia dopo la Liberazione.
Ho raccontato il libro in poche righe, ma credo siano sufficienti a far comprendere l’importanza del contributo socialista alla causa della democrazia e della costruzione di una società più giusta. Secondo Angelo Landi le caratteristiche fondamentali del movimento socialista nella nostra terra sono state “la carica libertaria e l’impronta riformista”. Credo anch’io che sia così. E’ giusto insistere sul primo elemento: non tutti i socialisti furono riformisti, ma il libertarismo li univa quasi tutti. Vittorio Foa, socialista di sinistra, scrive non a caso nel suo “Scelte di vita”: nella storia socialista “ci saranno mille compromissioni e mille volgarità, ma dentro queste compromissioni e queste volgarità c’è qualche cosa che non muore, che resta, ed è il libertarismo dentro ad una dimensione collettiva”. Ma è giusto insistere anche sulla ricchezza del riformismo, per come esso viveva, pur tra errori e subalternità, nelle esperienze di autogoverno popolare nei Comuni, nel sindacato, nelle cooperative. Era un riformismo affidato alla crescita di coscienza e di esperienze che le masse proletarie dovevano acquisire esercitando il proprio potere, con forte autonomia di classe nelle istituzioni, nella politica e nell’economia. Un riformismo gradualista ma, nelle sue esperienze migliori, classista e nemico di ogni cedimento.
Infine, qualche considerazione conclusiva, legata all’oggi. Questa storia è davvero finita? La sinistra italiana ha ormai “un’altra storia”? Certamente le radici poste rispettivamente nel 1892 dal Psi e nel 1921 dal Pci (che nacque dal Psi, fu originariamente intransigente e divenne poi, a suo modo, anch’esso riformista) sono state recise all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso dal duplice crollo del Psi inebriato dal potere e del Pci stanco e confuso. Allora poteva nascere una grande forza socialista: ma così non fu, per responsabilità delle due leadership. Di più: queste radici sono state essiccate anche dai cambiamenti sociali e culturali. Le classi e le ideologie del ‘900 non ci sono più. Eppure il socialismo continua la sua vita in Europa e nel mondo, su basi e con metodi diversi da quelli del ‘900 ma con gli stessi valori fondamentali, lotta per l’eguaglianza in testa. Oggi il Brasile di Lula e del Partido dos Trabalhadores è la più grande socialdemocrazia del mondo, proprio perché sta combattendo le diseguaglianze più di ogni altro Paese.
Anche in Italia è possibile costruire qualcosa di nuovo a sinistra, che recuperi quei valori. Domenica scorsa ho spiegato, su queste pagine, perché ho votato per Vendola al primo turno delle primarie del centrosinistra. Quel Vendola che, il 23 novembre in un’intervista all’Unità, ha affermato: “Il nostro campo d’azione è con i socialisti francesi e spagnoli, con i socialdemocratici tedeschi, con i laburisti inglesi. Per questo bisogna rompere con la subalternità ideologica della Terza Via”. Poi Bersani è stato a Stella, il paese natale di Sandro Pertini, e ha detto: “In queste radici lontane ma sempre vere c’è l’orgoglio della parola socialismo, la più antica parola della politica in Italia… in cui c’è il concetto di eguaglianza”. Ecco perché, al doppio turno, voterò Bersani, nonostante le critiche che gli ho mosso in questi anni: pur “blando” che sia stato, è un socialista europeo. Che ora deve fare scelte forti, in controtendenza rispetto al potere dominante. Oltre all’agenda Monti deve esserci sempre più un’altra agenda, quella di una sinistra nuova che vuole ricostruire l’Italia ma pensa che per farlo bisogna ripartire dal mondo del lavoro e dalla creatività umana, non dalle logiche finanziarie. E’ tempo di dare un posto anche agli ultimi nella nuova Italia. Se poi Bersani accelerasse verso il cambiamento e l’innovazione della classe dirigente (il nucleo di verità della posizione di Renzi) si creerebbero le condizioni per costruire, con il Pd, Sel, il Psi e tante energie civiche, il partito della sinistra del futuro. Un partito, finalmente, con una chiara identità politica e culturale: il partito riformista e libertario del lavoro e dei diritti.