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Luci della città

Giuseppe Fasoli, un comunista, un cristiano, un liberale

di Giorgio Pagano

Lerici, la villa del Fodo alla Rocchetta (2013)

La mia prima vacanza senza i genitori, con gli amici – pochi giorni ma entusiasmanti – la feci all’età di sedici anni a Roma, nella casa al Testaccio in cui viveva, con altri parlamentari, Giuseppe Fasoli, il “nostro deputato”. Quindi il mio ricordo di lui è legato innanzitutto a quel suo primo atto di gentilezza, a cui ne seguirono molti altri. Giuseppe era aperto e cordiale con tutti: era il tratto fondamentale della sua personalità, il segno di un’umanità generosa che ha sempre suscitato affetto negli altri. L’ha dimostrato il pellegrinaggio continuo alla camera ardente, una partecipazione così sentita che la moglie Franca ha commentato: “la sua umanità aveva una valenza politica, tutta questa gente significa il riconoscimento che Beppe era una persona perbene, e che oggi c’è tanto bisogno di persone come lui”. Franca ha ragione. Nessuno, del resto, lo conosceva come lei: 63 anni passati insieme, dal ’50. Lei era giovanissima. Del suo amore so da mia madre, che era stata sua compagna di scuola e amica. Franca faceva la dattilografa nella sezione del Pci di Migliarina. Beppe, che era già funzionario di partito, era appena tornato da un periodo di lavoro nella Federazione di Como. Lì il partito era debole, Beppe aveva davvero fatto la fame: “aveva un vestito lucido che di più non si può, da tanto che era liso”, mi racconta Franca.

Fasoli, nato nel 1919 ad Atina (provincia di Frosinone, più Campania che Lazio) era arrivato nel ‘36 a Spezia, ospite di parenti per frequentare il Liceo Classico; nel ‘41 fu chiamato alle armi, dopo l’8 settembre riuscì a sottrarsi ai tedeschi a Roma e raggiunse la nostra città. A Carnea di Follo conobbe il comunista Adriano Vergassola, che lo fece aderire alla Resistenza. Venne impegnato nella riorganizzazione della IV zona operativa, fu tra coloro che nell’aprile del ’45 a Vezzola di Zignago parteciparono alla riunione del Cln provinciale che decise l’insurrezione e la discesa dei partigiani in città. Dopo la Liberazione fu nominato dal Cln Sindaco di Follo e divenne funzionario del Pci. Terminata l’esperienza a Como entrò nella segreteria provinciale del Pci spezzino, e si occupò per molti anni della “stampa e propaganda” (“lo vedevo sempre poco, ma quando cominciava la stagione delle Feste dell’Unità spariva”, racconta Franca). Fu deputato dal 1963 al 1972, consigliere comunale dal 1951 al 1983, e vicesindaco e assessore ai Lavori pubblici quando la sinistra, nel 1973, tornò al governo della città. Poi si impegnò soprattutto nell’Associazione Combattenti e Reduci, di cui fu Presidente provinciale per molti anni, e alla fine Presidente nazionale onorario. Esperienze che gli diedero, tutte, soddisfazione, e in cui si fece apprezzare: da parlamentare si impegnò in Commissione Difesa per le nostre fabbriche; da amministratore locale con Sindaco prima Varese Antoni e poi Aldo Giacchè fu protagonista dell’iniziativa per dotare la città di opere pubbliche fondamentali, dalle scuole alla Biblioteca Beghi, dal Palazzo di Giustizia alla Galleria Spallanzani; nell’impegno associativo coniugò patriottismo, pacifismo e difesa dei valori della Resistenza e della Costituzione.

Nell’introduzione al libro di Fasoli “Gli ‘inventori’ della Spezia”, Marco Ferrari lo definisce giustamente “uno dei più impegnati e attivi intellettuali organici del Pci”. Con il termine si indicavano persone dedicate alla cultura che abbracciavano l’impegno politico. E’ vero, le due passioni di Beppe erano lo studio e la politica, e lui riuscì come pochi a combinarli. Le sue notti, rammenta Franca, sono state per lungo tempo notti di studio: era funzionario, di notte studiava per laurearsi in legge a Pisa, senza mai frequentare (un bidello firmava per lui, ora penso si possa dire!). Il suo amore per i libri era sconfinato: “si portava sempre dietro, in ogni trasloco, un baule enorme e pesantissimo pieno di libri, i primi li comprò con grandi sacrifici… negli ultimi tempi temeva che qualcuno potesse rubarglieli…”. Franca ricorda il suo amore per i classici della letteratura (“il suo primo regalo per me -rammenta sorridendo- fu Edipo Re di Sofocle”), per la saggistica, per il cinema.
Ma soprattutto Fasoli era appassionato di storia. Dapprima storia della Resistenza, con il libro “Una tipografia clandestina”, che racconta la vicenda della stamperia della villa del “Fodo” alla Rocchetta di Lerici. Lo stile è quasi romanzesco, e mette a fuoco sia le vicende collettive sia quelle personali, con splendidi ritratti dei protagonisti, i comunisti Argilio Bertella, Alfredo Ghidoni, Armando Isoppo e Tommaso Lupi. L’importanza della stampa clandestina -al Fodo si stampavano i volantini del Cln ma anche, per il Pci, l’edizione spezzina dell’Unità- non poteva sfuggire a chi, come Beppe, si era occupato per tanti anni proprio della “stampa e propaganda”. La tipografia, infatti, fu essenziale per la preparazione e la riuscita dei grandi scioperi nelle fabbriche spezzine del marzo 1944, e poi perché stampava volantini che venivano diffusi dappertutto: sul piano psicologico teneva sulla corda tedeschi e fascisti, un po’ come “Pippo”, l’aereo ricognitore alleato che quasi ogni notte si aggirava nei cieli spezzini.

Il Fasoli storico fu poi il cantore di Spezia città marittima. La raccolta di saggi “Gli ‘inventori’ della Spezia” mette al centro il passaggio da piccola a grande città, capitale della Marina, con tutte le sue conseguenze urbanistiche e sociali. Il tema è sviscerato con grande cura, e con ammirazione per l’opera di Cavour e Chiodo, e poi di uno studioso quasi dimenticato come l’urbanista Amerigo Raddi: perché “Spezia, tra la seconda metà dell’800 e i primi decenni del ‘900, quando ancora la scienza urbanistica non poteva dirsi diffusa nel nostro Paese, crebbe sempre adottando Piani Regolatori, affinché l’organizzazione e l’uso del territorio potessero rispondere al meglio ai bisogni dei suoi cittadini”. Fasoli invita a considerare la grandezza di questo disegno, pur nella consapevolezza di un suo serio limite: l’Arsenale creò operai provetti, ma “stroncò le radici che impedirono negli anni seguenti il sorgere di una piccola industria, la cui gamma tecnologica è oggi estremamente ridotta”. Raddi fu il primo, sostiene Fasoli, a pensare a una città che, oltre l’Arsenale, sviluppasse il porto mercantile e l’industria privata. Insomma, a proporre il passaggio dalla città ottocentesca a quella novecentesca. Il fascismo non seppe però portare a termine l’impresa, che fu poi rielaborata e realizzata, prosegue Fasoli, dalle Amministrazioni di sinistra dagli anni ’70 in poi. Beppe mi voleva un gran bene, e discutevamo sempre. Sarà che anch’io ero stato a lungo “responsabile stampa e propaganda”, poi assessore ai lavori pubblici, e pure funzionario capace di laurearsi di notte… Fatto sta che almeno una volta al mese, anche quando ero Sindaco, ci siamo sempre incontrati, e lui non si stancava di darmi consigli, che partivano sempre da considerazioni storiche. Un po’ come con me ha sempre fatto una personalità diversissima come Varese Antoni. Ed è chiaro che con Beppe, come con Varese, si discuteva del futuro: in sostanza di come una nuova fase imperniata anche sul turismo si integrasse con la vocazione militare, industriale e portuale della fase precedente. Una grande questione ancora non del tutto risolta.

Centrale, nella riflessione di Fasoli, era inoltre il tema della ricerca scientifica: Spezia divenne, grazie alla Marina, un centro di altissimo livello nel campo delle scienze del mare, e tale doveva continuare ad essere. Ecco perché era entusiasta dell’iniziativa di Rosaia e mia sull’Università. Oggi questa “missione” della città è in pericolo: Beppe inviterebbe Spezia e Genova a collaborare tra loro, senza grettezze campanilistiche. Come facemmo a metà ‘800 grazie a Cavour: egli volle l’Arsenale Militare a Spezia non contro Genova, come sostenne qualche “gretto campanilista” genovese, ma per preparare il porto mercantile di Genova alle grandi navi commerciali e per farlo competere con gli altri porti del Mediterraneo. Così oggi avremmo bisogno di un leader, regionale o nazionale, che prospetti un piano in base al quale, nella ricerca e nell’Università, ci sia spazio sia per Spezia che per Genova, ognuna con una sua funzione di rilevanza nazionale, tra loro integrate in un disegno complessivo.

Con Fasoli se ne è andata una “persona perbene”, come dice Franca. Per me un amico e un maestro, di politica e di umanità. Fu, nel vecchio gruppo dirigente, l’unico -insieme a Sandro Bertagna- che capì e apprezzò la mia scelta di “cambiare strada” una volta finito il mio mandato di Sindaco. Comprendeva il mio distacco da una politica partitica senza più etica. Aveva “paura” di essere un privilegiato, rinunciava a molte delle cose che gli spettavano come ex parlamentare. Aveva significativamente concluso “Una tipografia clandestina” citando il numero 10 dell’Unità stampato alla Rocchetta: “L’aver ricoperto cariche di dirigente non dà alcun diritto di riguardo nell’organizzazione, significa solo che si è servito il partito in una determinata funzione, finita la quale si rientra nei ranghi. Nel partito non vi sono padreterni… Il comunista deve essere un campione di serietà, moralità, correttezza, onestà in qualunque campo di attività sia sociale che privata”. Frasi di un assoluto rigore, che oggi nessuno scriverebbe più così. Ma che colpiscono se si pensa al degrado che ci circonda, al cinismo e al carrierismo imperanti. Comprendeva anche il mio distacco da un Pd smarrito e senza identità. Ma per lui, come per tanti, il Partito era il Partito. Franca, critica “da sinistra” pure lei, dice: “per lui era un feticcio”. Poteva criticarlo, ma non se ne sarebbe mai staccato. Anche se l’ultima sua espressione, mi racconta, fu di sconforto per la lettura che lei gli fece di un articolo sull’ossessione spartitoria delle correnti del Pd. Nel suo studio c’è, in bella vista, la Costituzione. E il libro delle opere di Palmiro Togliatti, che stava rileggendo. Per lui “era un grande politico”. Beppe, ammiratore di Pietro Ingrao, non ebbe incertezze a scegliere il Pds quando Achille Occhetto sciolse il Pci. Ma continuava a definirsi “un comunista”, me lo disse anche qualche settimana fa, l’ultima volta che ci incontrammo. Per lui “comunista” non voleva certo dire “bolscevico”: voleva significare l’affermazione, in rapporto a un concetto moderno di democrazia, dei principi di eguaglianza, solidarietà, reciproca condivisione del destino dell’umanità, i principi di una cultura e di una società imperniate sul primato del lavoro. Subito dopo diceva di essere “un cristiano”. Sono sicuro che sarebbe d’accordo se aggiungessi: “un liberale”.

Ricordando Ennio Carando – Presidente del Cln spezzino per il Pci – nel 1955 Carlo Naef, che ne era membro per il Partito Liberale, scrisse che “poteva risultare persino illogico a qualcuno che egli, liberale, abbia potuto apprendere da lui, comunista, cosa fosse comprensione, cosa fosse tolleranza, cosa fosse infine il segreto di una vita degna di essere vissuta”. Altrettanto oggi si potrebbe scrivere di Giuseppe Fasoli: comunista, cristiano, liberale, che ha vissuto una vita degna di essere vissuta.
Ciao Beppe, hai fatto parte di un mondo che è tramontato. Ma solo gli stolti possono sentire questo tramonto come una liberazione, come un nuovo inizio per poter finalmente vivere senza la fatica del pensare come poter cambiare il mondo. Nel momento in cui sento la mancanza della tua umanità e della tua intelligenza critica, sento anche che c’è un cammino che, in forme nuove e che non conosciamo, può e deve continuare.