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Luci della città

Covid-19 due mesi dopo. Impariamo dagli errori

di Giorgio Pagano

La Spezia, Marinasco, la Pieve di Santo Stefano  (2020) (foto Giorgio Pagano)

Sono passati più di due mesi da quel 20 febbraio. Ora sappiamo che il virus era già in Italia a gennaio, forse a dicembre. All’inizio pensavamo che tutto si risolvesse presto. Ed invece è stata -è ancora- una tragedia: quasi 200 mila contagiati ed oltre 26 mila morti (due dati sottostimati, a detta d tutti gli esperti).
La situazione, grazie alle misure prese, sta lentamente migliorando. Ma occorre molta prudenza nella cosiddetta “fase due”, che non deve assolutamente significare “tornare alla normalità” precedente, a “come eravamo prima”. Vale in tutti i campi, ma in particolare in quello della sanità. Se siamo arrivati alla tragedia, infatti, è non solo perché siamo partiti tardi nel lockdown (nessuna “zona rossa” nel bergamasco e nel bresciano!) ma anche perché il nostro sistema sanitario si è rivelato impreparato. In Lombardia in particolare. Ma anche in Liguria. Lombardia e Liguria hanno i due dati nazionali peggiori. Al 23 aprile, in Lombardia ci sono stati 129 decessi ogni 100 mila abitanti, in Liguria 67: contro una media nazionale di 42. Dobbiamo capire le cause di questi dati negativi, imparare dagli errori e rimediare, perché la “fase due” potrebbe essere ancora più difficile della precedente.
C’è stata una differenza non solo tra la risposta del sistema sanitario dell’Italia e quelli della Germania o della Corea del Sud, ma anche, nel nostro Paese, tra la risposta della Lombardia e della Liguria e quella di altre Regioni, come il Veneto e l’Emilia.
Qual è stato il punto di fondo, alla radice della differenza? Il giudizio è ormai unanime, almeno per quanto riguarda la Lombardia.
Già il 21 marzo i medici dell’Ospedale di Bergamo scrissero una lettera alla rivista “New England Journal of Medicine” chiedendo un approccio sanitario diverso:
“Questo disastro poteva essere evitato con un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio”
Un approccio rivolto alla comunità prima che al singolo paziente. Un’attenzione alla medicina territoriale prima che a quella ospedaliera. Mentre invece la linea della Regione non era “preveniamo nel territorio in una comunità”, dove il virus può essere completamente eliminato, ma “ricoveriamo tutti”, esportando così il virus negli ospedali, e contagiando pazienti e medici. Per non parlare di quello che è stato fatto con le case di riposo, dove sono stati inviati pazienti positivi.
Il 24 marzo il Sindaco di Milano Beppe Sala riconobbe il suo errore iniziale (Milano non si doveva e poteva fermare, questa la sua tesi durante i primi giorni), ma pose anche la questione della sanità lombarda:
“Negli ultimi anni, la Lombardia ha puntato su grandi strutture ospedaliere penalizzando la rete sociosanitaria locale. Questo non è accaduto né in Emilia né in Veneto” (“La Repubblica”, 24 marzo 2020).
E’ la stessa denuncia dei medici lombardi. Il Presidente degli ordini della Lombardia l’ha ribadita qualche giorno fa:
“Si è investito molto sugli ospedali dimenticando il territorio, i medici di base” (“La Repubblica”, 21 aprile 2020).
Tutta la stampa concorda. Anche quella di orientamento vicino al centrodestra. Non si tratta, quindi, di polemiche di parte. In un articolo dell’8 aprile su “La Nazione” Federico De Robertis ha elogiato “il sistema territoriale tutto sommato pubblico” del Veneto e ha criticato “l’impostazione privatistica data da Formigoni, basata sui grandi ospedali, meno adatti alle emergenze”. Aggiungo io: più adatti a cure remunerative.
Sentiamo dalla voce del Presidente della Regione Veneto Luca Zaia qual è stato l’orientamento, del tutto diverso, seguito. Già il 23 marzo sosteneva:
“Siamo oggi a 70 mila tamponi fatti e quasi 16 mila persone isolate. La nostra filosofia è cercare un caso positivo e poi testare i suoi contatti a cerchi concentrici in modo da isolare i più positivi possibile” (“La Nazione”).
Il punto di fondo è dunque chiaro. La posizione critica verso il modello lombardo si sta rafforzando sempre più anche in Liguria, che da anni si ispira a quel modello. Il Manifesto della sanità locale e diverse forze politiche e sindacali spezzine sostengono questa posizione da tempo. In questa rubrica me ne sono fatto portatore nell’articolo “Covid-19, qualche domanda ai nostri governanti” (5 aprile). Nei giorni scorsi ha cominciato a muoversi anche il resto della Liguria: 150 medici ed operatori liguri hanno firmato il documento “Ripensare la sanità nella nostra regione”, pubblicato su Repubblica Liguria del 25 aprile. Eccone alcuni passi:

“Confrontando gli effetti del contagio con altre regioni, emerge che la causa principale dell’eccessiva mortalità registrata in Liguria e Lombardia è stata l’inadeguatezza dei sistemi sanitari, in particolare la debolezza della rete territoriale, frutto di una strategia che viene da lontano e che per molti anni ha tagliato gli interventi sul territorio. La strategia scelta per combattere la pandemia è stata centrata sulla rete dei servizi ospedalieri e solo marginalmente, date le esigue forze in campo ed in assenza di chiari indirizzi regionali, sulla rete territoriale e di prevenzione. Ancora una volta è illuminante la classifica regionale che si ottiene valutando il rapporto fra numero di tamponi eseguiti ed il numero delle persone decedute: la Lombardia è all’ultimo posto, la Liguria al penultimo.
Se in Lombardia ed in Liguria si fossero effettuati da subito più test, soprattutto a domicilio e nelle fragili strutture di comunità, sarebbe stato possibile individuare precocemente i focolai ed assistere i pazienti al domicilio, con evidente riduzione degli esiti infausti. Così hanno fatto le regioni che hanno ottenuto risultati migliori.?Al contrario, in Lombardia e in Liguria una carente regia regionale dell’assistenza territoriale e dell’intervento dei medici di famiglia ha comportato un sovraccarico degli ospedali e questo ha contribuito all’ulteriore diffusione dei contagi. Ormai da diversi anni i finanziamenti destinati alla sanità sono in progressiva diminuzione (un taglio di 37 miliardi su base nazionale nei passati nove anni) e, all’interno di essi, ancora di più quelli ripartiti sulla prevenzione (rispetto alla quota del 5% del fondo sanitario nazionale fissato a livello centrale per la prevenzione, in Liguria non si è andati sopra il 2,5%). Dal 2009 al 2017 il servizio sanitario nazionale ha perso oltre 46 mila unità. In Liguria e Lombardia il taglio ha colpito in primo luogo la sanità territoriale e la prevenzione. Analoga diminuzione di finanziamenti ha riguardato il settore socio-sanitario (riabilitazione disabili e residenze per anziani) con il risultato di indebolire le strutture che poi, lasciate sole, sono risultate impreparate al Covid-19, con effetti tragici tra gli anziani ospiti. Sul piano della diagnostica di laboratorio si è mantenuto un accentramento in pochi laboratori, che ha ridotto nel territorio la capacità di rispondere alle situazioni di emergenza (vedi: lettura dei tamponi).
Va rilevato che in Liguria nelle ultime due settimane la situazione è migliorata, il numero di tamponi giornalieri è aumentato, sono diventate operative (ma ancora insufficienti) le squadre per l’assistenza domiciliare ed è stata consentita la distribuzione dei farmaci ospedalieri a domicilio. Ma si tratta di interventi tardivi, non sostenuti da una adeguata programmazione, nonostante la Regione sia tenuta da oltre un decennio all’organizzazione del piano pandemico regionale”.

E’ bene che su questi temi si apra una discussione vera, a cui si tende invece a sfuggire. A Genova come a Spezia. Che il punto di fondo sia questo lo ha detto, nei giorni scorsi, anche Gianni Rezza, epidemiologo e Direttore del Dipartimento Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, volto ormai noto agli italiani:
“D’ora in poi occorre agire sul territorio per identificare tempestivamente qualsiasi focolaio, perché il virus continuerà a circolare”.
O ci attrezziamo, o ci aspettano altri momenti dolorosi. Non possiamo davvero più permettercelo.

Post scriptum:
L’articolo di oggi è dedicato all’amico Silvano Gianti, giornalista di grande intelligenza ed umanità, da qualche anno genovese, scomparso nei giorni scorsi. Focolarino, aveva la grande capacità di raccontare storie di tanti, migranti ed italiani, che vivono nelle periferie dell’esistenza, ai bordi delle strade in quello che lui definiva “anonimato assordante”. Lo invitai ad un’iniziativa dell’Associazione Culturale Mediterraneo, da allora non ci siamo più persi di vista. Sul sito dell’Associazione sono presenti alcuni suoi articoli. Era una persona davvero vicina alla sofferenza ed alla voglia di riscatto degli ultimi del mondo.