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Senza far rumore

La vocazione poetica di Andrea Bonomi. Di Francesca Cattoi

Andrea Bonomi

Due anni fa, insieme a mia sorella e ai miei nipoti, abbiamo deciso di trascorrere la sera del 31 dicembre andando al cinema, riprendendo, così, una tradizione famigliare abbandonata con l’adolescenza e l’età adulta. La programmazione dei pochi cinema cittadini si riduceva, per titolo e orario, al film di Jim Jarmusch, Paterson, 2016. Nel foyer/bar del Cinema Nuovo in via Colombo, si era raccolta una sessantina, forse settantina, di spettatori. I miei nipoti, di età compresa tra 8 e 13 anni, due femmine e un maschio, erano gli unici bambini presenti. Una sola giovane coppia si era avventurata a trascorrere queste poche ore prima della festa al cinema. Lui era Andrea Bonomi (La Spezia, 1988). Lo conoscevo di vista perché faceva parte dei Mitilanti, il quintetto di poeti spezzini che si era costituito da qualche anno. Gli altri spettatori, compresa mia sorella ed io, erano tutti di età adulta e anziani.
Probabilmente Andrea sapeva che il film raccontava la storia di un giovane poeta, che ogni giorno ripete le stesse monotone azioni, riscaldandole con la sua poesia, l’esuberanza della fidanzata e le marachelle del loro cane. Per noi il film fu una bella sorpresa: la storia, con la sua delicatezza e sincera genuinità, piacque a tutti.
La serata proseguì in Piazza Verdi, inaugurata allora da appena un mese. La giovane coppia era ancora lì. Credo che siano rimasti in alcune delle fotografie che ho fatto ai miei nipoti quella sera, mentre la musica e le luci ci trasportavano nel nuovo anno. Loro si baciavano. Noi facevamo del nostro meglio per intrattenere la prole fino ad un orario consono per dichiarare finita la serata.
Andrea l’ho poi rivisto in giro altre volte. Lo seguo su Facebook e leggo da un po’ regolarmente il suo blog su WordPress. Quindi ho pensato di chiedergli di partecipare a questa rubrica per parlare di nuovo di poesia (forse ricorderete che ho iniziato proprio con le parole in versi di Andrea Fabiani).

Allora, Andrea, entriamo subito in argomento, come hai iniziato a scrivere? Come ti sei avvicinato alla poesia?
“Mi sono chiesto tante volte come mai ho iniziato a scrivere e mi faccio di nuovo questa domanda mentre sto seduto a farlo. Tutto ha inizio con una piccola ma significativa lontananza da casa, dalla Spezia a Genova. Università mi suona ancora parola che comprende uno spazio indefinito, sconosciuto. Città, invece, non è mai stata estranea alla mia voglia di conoscere, ho dato fiducia ad ogni cosa che mi ha offerto. Genova mi ha concesso il lusso di perdermi nel suo ventre. Forse è come un’amica, forse è dove ho imparato a vivere. Il mio approccio alla scrittura è stato sotto forma di terapia. Scrivere era isolarsi – trovare una pace, raccontare i materiali della vita senza nessuna pretesa di dare a essi alcuna coerenza, perché spesso le cose che succedono intorno a noi, i cosiddetti casi della vita, ci sembrano una cattiva replica del teatro che recitano sui palcoscenici. Una filastrocca dell’Appennino emiliano racconta che la vita di un uomo è lunga quanto la vita di tre cavalli. Ho pubblicato un libro nel 2012 (Anche Robin Hood Piange, Erga Editore) con buone dosi di fretta ed impreparazione verso il mondo reale della scrittura e dell’editoria. Con questo libro ho sepolto il mio primo cavallo. Avevo bisogno di sperimentare ed aiutarmi, anche ingenuamente. L’ho fatto per me ed ero un ragazzo di vent’anni. È stato comunque fondamentale perché mi ha aperto, quasi per caso, la strada dei reading – nelle sale dei palazzi storici, nei festival, nei club, nei teatri, nelle piazze, nelle strade, nei bar, nei centri sociali. Hanno cominciato a chiamarmi per leggere in pubblico. Questo mi ha permesso di trovare altro coraggio, di scrivere meglio, di migliorarmi. La scrittura è stato il mezzo per imparare a stare sul palco, ad usare meglio la voce. Mi sono ritrovato in breve tempo ad aprire spettacoli di artisti che avevo sempre e solo ascoltato nelle cuffie. Emidio Clementi dei Massimo Volume, ad esempio. Dalla prosa sono passato ai versi liberi, in un certo tipo di poesia ho trovato la vita che mi mancava e quello che davvero volevo dire. Dopo un periodo di pausa dovuto fondamentalmente alla pigrizia e ad un certo tipo di confusione mentale, Matteo Fiorino – grande cantautore e grande amico, mi ha spronato di nuovo alla lettura in pubblico. Non ho più smesso. Poi sono arrivati i Mitilanti.” 

Conosci bene la storia della tua famiglia, sei circondato da affetti “adulti”, cui spesso fai riferimento. È un modo per conoscere le tue radici spezzine? Un modo per mantenerti ancorato alla città?
Credo che le radici siano un fattore fondamentale del mio modo di affrontare la vita, l’individuo è un essere sociale che vive in relazione ad altri esseri sociali. Per questo penso che le origini – anche culturali e politiche, siano le basi, il retroterra di un uomo. Da qui è necessario partire per riuscire a percorrerne la storia e le scelte via via effettuate. I miei genitori mi hanno avuto molto presto; è stata una fortuna. Mi hanno permesso di conoscere e frequentare persone con un bagaglio di vita incredibile. Prendo come esempio alcuni uomini della mia famiglia. Un trisnonno soldato della Prima Guerra Mondiale, un bisnonno sopravvissuto al deserto africano, un altro musicista e partigiano. Un nonno maestro elementare figlio dei boschi della Lunigiana e scampato ai crimini nazifascisti, un altro cuoco e ragazzo migrante negli Stati Uniti degli anni Cinquanta. Non posso rimanere indifferente di fronte alla storia da cui provengo. Alla Spezia ci rimango ancorato comunque, nel bene e nel male. Non so se in futuro continuerà ad essere dove sono nato, abito e vivo, ma la chiamerò sempre casa mia. 

Vivi e lavori alla Spezia. Dove, cosa fai?
“Al momento lavoro come operatore telefonico alla Call&Call. 
Sono cresciuto nella prima campagna che si trova salendo verso Biassa. Ho fatto tutte le scuole in Piazza Verdi. Ho giocato a pallone alle Pianazze. Il mio bar di riferimento è il Bar Danese a Pegazzano. Vivo in una scalinata del centro. Il mare a Levanto o alla Palmaria. Piazza Brin è il posto che preferisco della città.  Ah, dimenticavo! La farinata più buona resta quella di Pagni”. 

Come consideri la situazione culturale spezzina? Mitilanti, Marco Ursano, Matteo Fiorino, Luca Bondielli, Francesco Tassara, etc, sono tutte persone con cui collabori e che frequenti. Pensi ci sia un buon numero di persone talentuose con cui condividere progetti presenti e futuri in città?
“Qui vivono artisti e operatori culturali che riescono a vedere il sole in una macchia gialla. Mi rendo conto però che spesso l’impegno e la volontà di fare qualcosa per la città non vengono premiati e valorizzati come meriterebbero. Capisco che alla lunga questo porti a desistere nel cercare di fare qualcosa di nuovo. Allo stesso tempo, non mi sembra che le nuove generazioni abbiano raccolto il testimone. I Mitilanti sono tra coloro che, pur avendo iniziato da qualche anno, non mollano. Guardando invece lo scenario nazionale è importante renderci conto, senza troppo rancore, che tanti dei nostri artisti spezzini non riescono – o non sono riusciti – a trovare il successo che gli addetti ai lavori e il pubblico avrebbe dovuto riconoscergli. Ma non parlo solo di artisti. Il mio non è campanilismo, ma non so darmi una spiegazione del perché questo accada ciclicamente. Negli anni ho ascoltato, visto, sentito numerosi prodotti di casa nostra superiori ad altri che hanno, invece, trovato la fama. Più che di nuvola fantozziana penso si tratti di carbone”. 

Sei presente su Facebook e su WordPress. Come sfrutti i social media per diffondere la tua poesia e quali sono i lati positivi e negativi che riscontri rispetto al libro cartaceo?

“Non raccontiamoci la favola dei “Tre piccoli porcellini”: è ovvio che i social media siano lo strumento più efficace per arrivare a un numero consistente di lettori. La popolarità arriva più veloce, cresce l’autostima. Quando mi sono iscritto a Facebook non pensavo che sarebbe diventato un luogo virtuale da prendere sul serio. Ognuno è libero di usare internet come meglio crede. Attraverso WordPress vedo che il mio banalissimo blog viene letto spesso da persone che abitano all’estero, in altri continenti. Questo è bellissimo”.
È interessante fare una riflessione sul poeta che si presenta attraverso internet. Continua ad essere davvero lui oppure si trasforma nel personaggio di se stesso? Diventa dipendente dai like come se fossero una droga? Riesce a lavorare sulla qualità del suo testo oppure spinge per un prodotto che abbia successo nell’immediato ma che poi non è un granché? E ancora, riesce a stare al passo di ogni nuovo social che si va ad aggiungere? Grazie a mia sorella adolescente noto quanto Facebook sia già obsoleto per le nuove generazioni. Ad esempio preferiscono Instagram, una comunicazione effimera ed istantanea e la qualità delle composizioni pubblicate è molto bassa, per non dire scadente. I Mitilanti mi hanno cresciuto molto sotto questo aspetto. Badare alla cura del testo, rivederlo, lavorarci sopra. Resto in una via di mezzo. Mi piace condividere quello che scrivo, ma senza esagerare”.

Stai pensando a pubblicare un libro? Se sì, come stai organizzando il lavoro?
“Sì, sto cercando di portare a termine un libro che raccolga le mie poesie. Al momento più che di organizzazione parlerei di lavori in corso. Dato il lavoro che faccio non mi posso permettere di dedicare alla scrittura un ritaglio preciso di tempo della mia giornata. Non ti nascondo che ho perso alcuni treni con delle case editrici che erano interessate a pubblicare il materiale già finito. Il fatto è che ho molte poesie non ancora portate a termine che vorrei includere nel libro. Soprattutto, voglio che piaccia a me, voglio che sia un prodotto che funzioni ancora tra diversi anni. Quest’ambizione mi ha portato forse ad esagerare in pignoleria, sarà l’età. Lavoro tutto il giorno con le cuffie e il computer, non mi è permesso né tenere il cellulare né guardare internet. Se sono ispirato vado in pausa e scrivo un appunto sulle note del telefono, oppure registro la mia voce. Rimango legato alle ore notturne per la produzione vera e propria”. 

Qualche mese fa hai pubblicato un video della poesia “Un fiore bellissimo” (https://vimeo.com/257873933). Mi è sembrata un’evoluzione dei videoclip musicali, ma in linea con i Poetry Slam e certo modo di fare che, credo, sia vicino alla musica, più che alla letteratura.
“La poesia, letta su un foglio, può assumere diversi significati. Con il video, l’interpretazione dell’autore stesso, raggiunge anche le persone che non hanno mai avuto occasione di partecipare a un reading e ascoltarla dal vivo. Sono contento della sinergia che si è creata con Omar Bovenzi (regista del video). Ha saputo parlare di quello che vive il protagonista della poesia attraverso immagini di sopravvivenza urbana post amore finito durante una grigia giornata invernale”.

Grazie ai Poetry Slam e ai reading sei spesso in giro. Cosa ti porti a casa di queste esperienze?
“Mi porto a casa luoghi, incontri, sensazioni, condivisioni, insegnamenti, gratitudini, complimenti, nuove conoscenze, nuove storie da raccontare, postumi. Mi porto a casa un senso di felicità particolare. Si avvicina a quella sensazione adolescenziale di quando tornavo a casa dopo un viaggio con gli amici. Forse mi fa sentire completo, realizzato. 
Un’estate fa, sono andato con la mia ragazza alle finali nazionali della Lega Italiana Poetry Slam, ero campione ligure in carica. Sulla carta sapevamo dove andare e come muoverci, alla ricerca di quelle cittadine milanesi che finiscono in -ate. Nella pratica, una volta lasciata alle spalle la stazione, ci siamo ritrovati naufraghi su un’isola spartitraffico incapaci di procedere o arretrare. Da un’auto coi finestrini abbassati e apparso il volto di Luca Cordero di Montezemolo che aspettava il verde con il suo autista. Ci siamo guardati. Ho alzato un pugno chiuso. Luca Cordero mi ha sorriso, ha fatto l’occhiolino come a dire: “Ma certamente, come no… che non lo sai? Ma tu gioca pure!”. Ho capito che come rivoluzionario non sarò mai un granché. Meglio continuare con le poesie. Dopotutto, la poesia è un’arma”.

Questa intervista segue un incontro tra Andrea e me nel caldo agosto spezzino all’Anfiteatro di Viale Alpi, all’interno del Parco della Rimembranza, in periferia, a Gaggiola, tra Rebocco e la Chiappa. Andrea avrebbe preferito portarmi al Bar Danese a Pegazzano, ma era chiuso. Singolare trovarsi a parlare di poesia, cultura, in un luogo sorto tanti anni fa come punto di aggregazione, ormai usato sporadicamente. C’erano persone che si allenavano, persone che portavano a spasso il cane, altri dediti a faccende non propriamente legali. Davanti a noi, la RSA G. Mazzini, la cui architettura sembra voler rispecchiare le vite chiuse al suo interno, che si consumano senza curarsi dell’aspetto dimesso del luogo in cui si trovano. Molto spesso mi chiedo come sia possibile crescere e vivere in luoghi brutti – Andrea scrive: “la provincia annoia dal primo capitolo” – e riuscire ad avere un occhio privilegiato per la bellezza nelle sue varie espressioni. Ho avuto la fortuna di ampliare i miei orizzonti visivi e aggiungere visioni cui fare riferimento per abbracciare il mondo. Andrea crea queste visioni con le parole, proprio partendo da questi luoghi. E siccome con le parole ci sa fare, dote non da poco, le sue poesie, redatte nero su bianco, andranno ad incrementare quel bagaglio di bellezza che ci può sciogliere il cuore.