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Max era max

"Con mio figlio sul terreno del Picco, dieci anni dopo"

Nel giugno del 2008 Max Guidetti lasciava lo Spezia per sempre. "Che atmosfera in quello stadio, oggi mi rendo conto della magia di quegli anni. Eravamo parte di un meccanismo. L'obiettivo non è vincere, è appartenere a una storia".

guidetti, il sogno di una generazione di tifosi

La storia si chiuse con un minuto d’anticipo e non fu il fischietto di Pinzani a segnare l’epilogo. Ci aveva pensato Antonio Soda a richiamare in panchina Massimiliano Guidetti una manciata di secondi prima del novantesimo in quel giugno del 2008. Il sipario tirato su un’epoca, per consegnarla al mito. L’ultima stagione del romanticismo, oggi travasata sulla rete grazie a qualche filmato sgranato che non renderà mai l’idea di quanto fosse incredibile rivedere lo Spezia in serie B. Il fallimento era il capitolo finale, narrativamente coerente in tutto e per tutto con l’epica della sconfitta costruita dal dopoguerra in poi allo stadio “Alberto Picco”. La città che non doveva più gioire fino in fondo aveva vissuto quattro stagioni senza mai prendere fiato, poi aveva chiuso gli occhi di nuovo.
Dieci anni fa, l’attaccante con la maglia numero 11, che tutto questo condensava nella sua figura, aveva segnato la sua ultima rete nel suo stadio. Una punizione deviata, ma d’altra parte di gol belli ne aveva fatti a decine prima. A quello ci pensa ancora perché “più si va avanti negli anni e più faccio fatica a trovare un binomio così stretto. La città si identificava con la squadra e noi, che per valori tecnici eravamo inferiori a tutto il resto della serie B, per spirito non avevamo pari. Sapevamo che il fallimento era imminente, nonostante gli sforzi disperati di salvarci. Ma che atmosfera che c’era in quello stadio…”.

Primo giugno del 2008, il 2-2 contro il Grosseto con lo stadio che festeggia una retrocessione come una promozione.
“Un momento straordinario. Era arrivata la chiusura di un’epoca e tutti ne eravamo consci, in campo e fuori”.

Il gruppo è stato il segreto di quegli anni. Un moltiplicatore di forze che fece paura alla Juventus, si prese una coppa a casa del Napoli, si mise dietro il Genoa, mandò in serie C il Verona e fece paura al Bologna. Tanti di quei calciatori oggi sono allenatori, non a caso.
“Era davvero una squadra di grande personalità, una cosa non semplice da trovare al giorno d’oggi. Alcuni erano leader anche se non te ne accorgevi. Prendete Davide Nicola, quando eravamo compagni non avrei mai detto che sarebbe diventato un allenatore così bravo. Era uno sempre con il sorriso, pronto allo scherzo, e io avevo l’idea che un allenatore era per forze di cose una personalità posata, quasi seriosa. L’ho ritrovato a Coverciano per il corso Uefa qualche anno dopo e mi sono reso subito conto a quel punto che avrebbe fatto qualcosa di importante in panchina”.

Anche gli attaccanti come lei non ci sono più. Ora le caratteristiche fisiche sono il primo discrimine per stare in area di rigore.
“In effetti non mi viene in mente un calciatore che mi assomigli oggi. Ero decisamente un centravanti atipico, chi ha il mio fisico o fa la seconda punta oppure il trequartista. Io ero una prima punta anche senza avere l’altezza e la stazza. Ho avuto un leggero deja-vu alla primavera del Novara di cui ero secondo in stagione. Lì abbiamo Matteo Stoppa, il classe 2000 capocannoniere del campionato, in cui un po’ mi rivedo. E’ freddo, non calcia mai di forza ma cerca sempre la precisione, vede la porta”.

Lo sa che ancora oggi c’è chi fa collezione di suoi cimeli (qui l’articolo)? Più che altro arriva la fase in cui il mito si tramanda anche a chi non l’ha mai vista giocare.
“La scorsa settimana mi ha chiamato Gabriele Savino, il mio ex procuratore, per chiacchierare e me l’ha detto! E’ una cosa che mi fa un piacere enorme. Io non ho social network, quindi non posso vedere la pagina in prima persona (“Collezione Massimiliano Guidetti” su Facebook, ndr), ma appena avrò l’occasione andrò a dare un’occhiata. Vuol dire che negli anni qualcosa hai lasciato. In un certo senso riesco a gustarmi oggi le cose fatte allora ancora più che ai tempi, quando avevi tanti pensieri. A bocce ferme, ripensando a quelle quattro stagioni, mi rendo contro di aver vissuto qualcosa di speciale”.

Oggi è sempre più difficile diventare bandiere, anche in provincia il calcio corre veloce e le facce cambiano spesso.
“Me ne rendo conto. Essendo tutto velocissimo, anche gli stessi tifosi non fanno in tempo ad affezionarsi a un giocatore o a un allenatore che magari è destinato ad andare via dopo un solo anno per essere sostituito da un altro che andrà via a sua volta. In provincia il coinvolgimento della città è sempre la base da cui ripartire qualsiasi cosa succeda. Soprattutto in serie B o in serie C, i tifosi devono potersi rispecchiare nella squadra. Alla Spezia poi si vuole vedere un gruppo che lotta, questo crea il trasporto che ti rende possibili cose che vanno magari anche oltre i tuoi stessi limiti”.

Ma voi degli anni 2005-2008 come eravate riusciti a creare la magia?
“Senza fare nulla di particolare. Non c’erano strategie comunicative particolari, almeno da parte nostra. Certo si facevano le cene con i club, si partecipava alle feste come è giusto che sia. Un contatto reale è necessario, mica solo per i tifosi. Il giocatore stesso trae forza da queste esperienze. Ma in generale tutto veniva spontaneamente. La città aveva capito che noi avremmo fatto di tutto per batterci in campo, e così eravamo diventati una parte di un meccanismo più grande che azionava tutta la piazza. C’era un qualcosa di straordinario che si era semplicemente creato e che si autoalimentava ogni domenica.
Io sono rimasto quattro anni, vedevo i nuovi arrivare e in poco tempo assorbire quell’aria e diventare a loro volta un ingranaggio. E guardate che non ho vissuto solo momento positivi! Ho vinto una Coppa Italia, ho vissuto la contestazione per aver mancato i play-off, ho vinto il campionato, ho raggiunto la salvezza e sono fallito. In pratica sono tutte le emozioni che può vivere un calciatore, condensate in pochi mesi”.

Sono cambiati i tempi anche sugli spalti. Prima si andava allo stadio con il calendario in formato cartaceo in tasca e si usciva che molti dovevano fare i calcoli per sapere com’era la classifica. E la maggior parte rinunciava.
“Vero, la classifica era un dato abbastanza relativo lì per lì. Credo che questo sia lo spirito che poi ti porta a centrare traguardi impensati. Certo, ci vogliono i soldi per fare una buona squadra ora come allora, ma l’appartenenza e il desiderio di esserci sono fondamentali. A proposito di questo ho un episodio in mente…”.

… prego.
“Vi ricordate nell’inverno del 2007 la manifestazione con Fabio Caressa per celebrare la vittoria contro la Juventus che ci aveva dato la salvezza? La squadra, di cui io ero allora capitano, decise di non andare. Non ci pareva giusto mandare una delegazione, credevamo fosse il momento di fare un gesto clamoroso per dire che c’era qualcosa che non andava nel club, qualcosa che all’esterno era difficile comunicare. In città ci fu una rivolta, per la gente era un momento importante e la scelta di non esserci era forte.
Due giorni dopo arrivava al Picco il Chievo di Beppe Iachini, la squadra ammazza campionato. Entrammo in campo in mezzo alla contestazione per aver dato buca. Perdemmo 1-0 con una rete a dieci minuti dalla fine, facendo una partita agonisticamente e tecnicamente semplicemente straordinaria. Siamo usciti tra gli applausi di tutto lo stadio. La nostra buona fede era stata compresa, con quella prestazione facemmo capire che non era stato un gesto contro la gente di Spezia, ma per la gente di Spezia. Avremmo potuto benissimo venire sommersi di fischi per una sconfitta in casa, eppure tutto era divenuto chiaro per chi stava sugli spalti. Tra i tifosi c’è chi ammira le diagonali, chi disquisisce di moduli e chi vuole semplicemente vedere la partita, ma la voglia di stare uniti la riconoscono tutti. E’ un momento che mi porterò dietro per sempre. Ecco, l’obiettivo non dev’essere vincere il campionato ma creare questa appartenenza”.

C’è una ricetta per stabilire quel tipo di canale comunicativo con la piazza? Oggi il calcio sembra sempre di più tutto teso alla ricerca della vittoria e sempre meno appartenenza, anche in periferia.
“Se la sapessi, ve la direi subito. Purtroppo non c’è un modo certo per creare empatia. Quando meno te lo aspetti può succedere. Mi rendo conto che avere una proprietà che ha costruito un centro sportivo e che ha quel tipo di forza economica ha alzato il target. Ai miei tempi non ci si poteva sognare di vedere qualcosa di più della voglia di lottare, le aspettative erano diverse. Abbiamo vinto un campionato con una proprietà che veniva dalla serie C2, un allenatore che veniva dalla C2 e un gruppo di giocatori che faceva la C2. Poi c’erano i vari Pietro, Vito e Roberto (Fusco, Grieco e Maltagliati, ndr) che avevano visto altro calcio, ma erano eccezioni. Nessuno di noi si rendeva conto che si stava creando quella cosa. La si viveva e basta”.

Dopotutto quel sipario non è mai stato davvero tirato per chi ha vissuto quell’epoca. Ogni volta che si parla di quegli anni i lettori si fanno avanti. Lo Spezia è ancora lo Spezia.
“C’è chi in casa me lo ricorda ogni giorno. Mio figlio ha 9 anni, inizia a farsi grande. Sa dei miei anni allo Spezia, me lo ritrovo che canta Non siete soli. Penso sia arrivato il momento di portarlo al Picco, lui ci terrebbe. Questo è l’anno giusto. L’ideale sarebbe in un giorno infrasettimanale, me lo immagino così: io e lui che camminiamo fino a centrocampo con gli spalti vuoti”.

Spezia-Grosseto 2-2, giugno del 2008, l’ultima di Max Guidetti.

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