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Spezia calcio

Addio a Luigi Scarabello, l’ultimo degli olimpionici targati Spezia. Il più grande degli Aquilotti

Si è spento a 91 anni a Nettuno. Domani i funerali ad Albiano. Il pensiero di Milo Campagni

Se n’è andato l’ultimo Olimpionico di Calcio di quella favolosa impresa di Berlino 1936, un Olimpionico sempre e comunque, indissolubilmente legato anche allo Spezia Calcio. Il più grande giocatore della storia aquilotta, l’unico approdato in maglia azzurra.
Luigi Scarabello, 91 anni – nella foto il giocatore accosciato con il pallone – compiuti lo scorso 17 giugno è deceduto questa mattina all’alba. Scarabello è stato una delle icone del mondo calcistico locale. Aveva cominciato a giocare nei ritagli di tempo dal lavoro e dalla famiglia nella piana di Albiano Magra dove era nato nel 1916. Sempre tifoso dello Spezia, maestro di calcio e di vita per tutti quanti hanno avuto la fortuna di averlo incontrato, Luigi Scarabello per diversi campionati ha vestito la maglia dello Spezia, e per 6 anni aveva indossato la maglia del grande Genoa.
E poi quella straordinaria avventura alle Olimpiadi di Berlino.
Vittorio Pozzo il cittì che prima e dopo vinse i campionati del mondo che lo chiama, e gli dà fiducia in una squadra completamente nuova. Si vada a consultare l’almanacco Panini in proposito. Viveva a Nettuno con la moglie, l’attrice Lilia Silvi. Anche in questo caso Scarabello, che provò direttamente anche la carriera cinematografica, aveva precorso i tempi.
Ma con molta più intelligenza e serietà di oggi. Il sodalizio calciatori-mondo dello spettacolo non era ancora influenzato e pervaso dalla straordinaria leggerezza di sentimenti e di scadenti – sotto tutti gli aspetti – stili di vita di oggi.
Le esequie di Luigi Scarabello avranno luogo domani pomeriggio alle ore 17 alla chiesa di Albiano Magra. In questo triste momento, CDS è vicina a tutti i famigliari.
‘Apprendiamo la notizia con grande dolore – sottolinea Milo Campagni – abbiamo perso davvero una grande persona, uno che voleva bene a priori alla città ed alla squadra. Siamo vicini alla famiglia e ricorderemo sempre Luigi Scarabello.
Partendo dal suo ricordo – chiude Campagni – proseguiremo il viaggio nel tempo iniziato l’anno scorso con la celebrazione del centenario, alla faccia di quanto accade nel calcio di oggi, perché Spezia è un mondo a sé stante. Vedrete la nostra campagna abbonamenti, toccherà il cuore, soprattutto di tutti quelli che da tanti anni vanno al Picco’.

Intanto, abbiamo cercato su Internet la storia di quell’impresa olimpionica, ecco il testo, direttamente da
http://www.storiedicalcio.altervista.org/olimpiadi_1936.html

Adolf Hitler vuole che le Olimpiadi di Berlino colpiscano il mondo con forza, come strumento eccezionale di propaganda. E così è. L’organizzazione e gli impianti sono monumentali. Ma la scena la ruba decisamente Jesse Owens, al secolo James Cleveland, ventireenne freccia d’ebano dell’Alabama, che vince l’oro di 100, 200, salto in lungo e staffetta, umiliando le teorie ariane. L’idea del clima della manifestazione la offre la ricostruzione di Vittorio Pozzo, Ct azzurro anche nell’occasione: «Dovevano essere, quelle Olimpiadi, le XI della serie, le più fastose, le più grandiose che mai fino a quel momento fossero state organizzate. Fu tutto un inno alla Germania, che, per quanto doveva avvenire poi in campo politico e militare, aveva bisogno di una pubblicità preventiva di carattere mondiale. Profusione di stendardi, di croci uncinate, di svastiche, di parate, di organizzazioni di tipo militare, di ‘Deutschland, Deutschland ùber alles’, di tutto quello che sulla potenza e sulla grandiosità dei mezzi della Germania di allora poteva e doveva lasciare nei presenti un ‘impressione indelebile. Il villaggio dove furono alloggiati, nella grande maggioranza, i partecipanti ai Giuochi, era una immane caserma, una grande scuola per Sottufficiali. Quando, a cose fatte, nel novembre dello stesso anno, noi ritornammo a Berlino per un incontro internazionale, io feci domanda di accesso all’ex villaggio, per una visita nostalgica ai posti dove avevo vissuto e lavorato, per poco meno di un mese, coi giuocatori. Precisamente come avevo fatto a suo tempo a Roveta, dopo il Campionato del Mondo di due anni prima. Mi si disse di no. Vi andai ugualmente, con una macchina, per mio conto. Vi trovai un regolare corpo di guardia alla porta, con sentinella a baionetta inastata, conferii con l’ufficiale di picchetto, spifferai le mie qualità e le mie intenzioni, tutto quanto, ma entrare non mi lasciarono. La guardia alla porta monumentale c’era già fin da allora, quando noi eravamo alloggiati al villaggio, in quei ‘bunkers ‘, mezzo interrati e mezzo sopra-
Fu quella degli azzurri una metamorfosi decisiva, che Pozzo racconta così: «Con gli Stati Uniti effettivamente vincemmo, ma malamente: per uno a zero. Per una rete di Frossi, l’opportunista, nel secondo tempo. Di istruzioni ne erano state date e ribadite a iosa, ma, come succedeva spesso in squadre grandi e piccine, sul campo ognuno aveva fatto a modo suo. Presi cilindro. Ed in un rapporto appositamente convocato nella veranda della nostra casetta il giorno dopo, battei i pugni sul tavolo. Dissi che non ero abituato a parlare a vanvera, e che, se qualcuno aveva l’intenzione di fare quello che gli pareva e piaceva, che me lo dicesse subito: io avrei piantato baracca e burattini, e me ne sarei tornato a casa, dove mi attendevano compiti ugualmente impegnativi e più soddisfacenti forse. Fui preso sul serio. La prova provata la ebbi all’incontro seguente, allo Stadio Momsen, contro il Giappone. Effettivamente, i ragazzi nostri sapevano giuocare. Si erano adattati al regime di vita che io avevo prescritto. Erano entrati nel giro delle abitudini della Squadra Nazionale vera e propria, soprattutto come giuoco sul campo. Col grosso vantaggio che, nella Nazionale grande, avevo a che fare con gente dalle abitudini radicate — e difficilmente, o per lo meno pericolosamente, modificabili — mentre nel caso presente molte cose si potevano ancora plasmare. Aveva bisogno di una strigliata, la Squadra, per applicarsi con rigidità e fermezza ai temi che doveva svolgere. Lo fece, contro il Giappone, questo. Lo fece così bene che ne saltò fuori un risultato di otto a zero. Fu da quel momento che l’undici nostro prese a lavorare veramente come una squadra. La base del nostro successo fu gettata quel giorno. A proposito dell’incontro coi Giapponesi, ricordo di aver letto recentemente le affermazioni di un tizio, nel senso che allora le nostre due mezze ali raramente varcarono la linea della metà campo. Risposta: passammo quasi tutto il secondo tempo nella area di rigore giapponese, e Biagi, nostra mezz’ala sinistra, mise a segno quattro reti ».

In semifinale, davanti ai novantamila spettatori dell’Olympiastadion, l’Italia doma la favorita Norvegia (2-1), che presenta una vera e propria Nazionale maggiore, reduce dall’aver estromesso la Germania padrona di casa. Il sofferto successo arriva ai supplementari, con una rete decisiva di Annibale Frossi, che riprende al 96′ una conclusione di Bertoni. Neri al 15′ aveva portato in vantaggio gli azzurri, prima del pareggio di Brustad al 57’. Il match ha un retroscena, rivelato proprio dallo stesso Pozzo: «Dolosamente, qualcuno di quei diavoletti nipponici, con un fallo malizioso, ci aveva messo fuori combattimento il capitano ed ala sinistra, Giulio Cappelli. Non poté più comparire sul campo. Nella squadra c’era stato un cambiamento solo, quel giorno. Bertoni aveva preso il posto di centroavanti, sostituendo Scarabello. Mi dava delle soddisfazioni, ma anche dei grattacapi, Bertoni. Era un bel tecnico. Vedeva il giuoco, alla Meazza, toccava la palla a proposito. E, come Meazza, faceva funzionare colla sua presenza l’intero settore di avanguardia. Ma era venuto a Merano prima, ed a Berlino poi, tacendomi di un principio di strappo muscolare ad una gamba. Poi, al vedere la squadra andar bene, ed al sentire il dolore riacutizzarsi, si era spaventato. Anche perché da uno strappo, come spesso avviene, ne nacque un secondo. Era un ragazzo onesto, e, coi compagni, diceva che mi aveva ingannato: e piangeva. Io credevo in lui, sapevo che cosa voleva dire la sua presenza in squadra. E per lui andai a… rubare. Rubai un dottore. Il dottor Zezi, che era uno specialista dei raggi Roentgen, sapeva manovrare gli apparecchi per le cure elettriche più moderne, ma era addetto ai nostri canottieri, al Wannsee. Io glielo portai via, con ira di tutti un pò. Ma mi mise Bertoni in grado di prendere parte alla semifinale contro la Norvegia. Con ricaduta, prima del termine della partita, e colla necessità di ricominciare daccapo colle cure subito dopo: ma giuoco e segnò lui stesso il punto della vittoria». L’incontro sul campo è duro, e l’Italia, provata, è costretta a chiudersi in difesa negli ultimi minuti. Una battaglia fisica, ma non c’è astio tra le due antagoniste: già il giorno dopo Pozzo offre un passaggio sul proprio pullman agli scandinavi, che lo accettano volentieri, nonostante i timori della polizia tedesca sulla possibilità dello scoppio di una rissa, rivelatisi infondati.
elevati, sparsi per i boschi, e per entrare ed uscire bisognava far vedere tessera e documenti al sottufficiale di servizio. Ricordo, al proposito, un episodio ameno. Il giorno del nostro arrivo a Dóberitz – così si chiamava il villaggio, sito a circa quaranta chilometri da Berlino – la persona che comandava la nostra spedizione, il Generale della Milizia Giorgio Vaccaro, mi invitò a fare un giro fuori delle porte e degli impianti, per una specie di ronda alla militare, perché non voleva che nessuno dei nostri, a qualunque branca dello sport appartenesse, girasse o si svagasse dove non doveva. Ne trovai subito uno, in tuta azzurra. Piccolo, tarchiato, era un pugilìsta, e stava contandola lunga ad una bionda ‘Gretchen’. Come quei due facessero a comprendersi, io non lo so: lui non parlava che un italiano un po’ dialettale, e lei non conversava che in tedesco. Chiamai lui: «Oh, giovanotto di belle speranze, lo sai che è proibito uscire. Vieni dentro, e torna al tuo reparto». Abbandonò la ragazza, e venne subito con me rispettoso, e, affinché non gli facessi rapporto, mi disse in tono confidenziale: «Io non la capivo, ma lei capì subito che ero italiano. Si vede che sono intelligenti, o che noi abbiamo un fascino speciale che ci rivela. Come abbia fatto ad indovinare che venivo dall’Italia, io non lo so». Lo guardai. Sulla giubba della tuta recava scritto, come tutti, a caratteri cubitali, la parola ‘Italia’. «Dev’essere l’intuito o il fascino!», gli risposi».
L’ultimo atto, il 15 agosto, è con l’Austria. E a favore degli italiani interviene nientemeno che… Jesse Owens. Lo racconta ancora Pozzo nelle sue memorie: «In finale delle Olimpiadi! Contro l’Austria! Chi se lo sarebbe mai sognato? Di nuovo il nervosismo che tenta di impadronirsi dei nostri ragazzi! Giungere fin lì e poi perdere? Questo no, vero? In quei cinque giorni di attesa, fra la semifinale e la finale, ad aiutarci fu Jesse Owens. Sì, proprio lui, il negro che aveva vinto o stava vincendo i 100 metri, i 200, il salto in lungo, la staffetta 4 per 100. Abitava nel villaggio olimpico in un’altra casetta, a due passi da noi. Veniva a visitarci, dopo cena, con una chitarra ed una fisarmonica. E suonava, e ballava la danza del ventre. Gli piaceva la nostra compagnia, perché diceva che gli italiani ridevano sempre, e così rumorosamente».
La partita, finalmente. L’Austria viene piegata sempre solo ai supplementari (2-1). La squadra austriaca aveva eliminato nei quarti il forte Perù (in semifinale la Polonia per 3-1) pur uscendo sconfitta nettamente dal campo (2-4). Infatti gli organizzatori avevano ordinato la ripetizione della partita perché alcuni sostenitori sudamericani avevano invaso il campo dopo il terzo gol della loro squadra. Il Perù, offeso per quella che ritenne una prevaricazione, preferì ritirarsi. L’Italia, davanti a un pubblico schierato con l’Austria, prossima all’Anschluss, si prende l’oro grazie a una doppietta del solito Frossi. La prima gemma al 70′, approfittando di una mischia in area, la seconda, l’ennesima decisiva, al 92′ su azione manovrata, dopo il pareggio di Kainberger, giunto all’80’. Ci vogliono quindi 120′ di sofferenza anche in finale e l’eroe è sempre lo stesso. Appena acquistato dall’Ambro-
Come si vede, anni luce di distanza dalle ‘fraternizzazioni’ tra atleti tipiche dei villaggi olimpici moderni. Si diceva dei risultati. Nel calcio, incastonato tra i due Mondiali del ’34 e del ’38, arriva, inatteso, il trionfo dell’Italia, allenata da Pozzo, che ai suoi ordini ha giocatori iscritti ufficialmente a Università (Foni, Negro, Scarabello, Bertoni e Frossi in seguito conseguiranno il dottorato) oppure Istituti Superiori. Non è la migliore selezione possibile, non ci sono figure di primissimo piano, nessun olimpionico fino a quel momento aveva giocato nella Nazionale maggiore. Gli stipendi dei giocatori, ormai però tutti professionisti, vengono definiti assegni di studio, per mantenere lo spirito dilettantistico, almeno nelle forma: non si gioca per lucro, ma per diporto. Nella sostanza si aggira l’ostacolo, anche se in Italia il professionismo non è stato ancora dichiarato. Si tratta comunque sempre di atleti lautamente ricompensati, come Foni e Rava, che negli anni a venire saranno i grandi terzini della Juventus. Foni vincerà il Mondiale del 1938 e come allenatore si aggiudicherà due scudetti con l’Inter nel dopoguerra.
Lo stesso Pozzo racconta così la selezione: «Dovevo attenermi agli studenti e chiamai i giuocatori uno ad uno individualmente, ben deciso a non mandare indietro chi avevo convocato. Dovevo anche in quel caso arrivare al numero di ventidue. Ero stato in precedenza ai Giuochi Universitari nostri a Bologna, e con l’ambiente studentesco non avevo mai perso in realtà contatto. A Firenze, a Bologna, a Livorno, ma principalmente a Pisa, in una partita appositamente organizzata, avevo visto dei ragazzi tecnicamente bene impostati, e che facevano al caso nostro. Avevo assunto informazioni, e qualcuno lo avevo anche seguito da vicino. Uno per uno, affluirono tutti: Piccini della Fiorentina, Baldo della Lazio, Biagi del Pisa, Marchini della Lucchese, Cappelli del Viareggio, Scarabello dello Spezia, Venturini della Sampdoria. Tutti studenti autentici, e ragazzi di buona famiglia. Poi vennero Foni e Rava della Juventus, e Bertoni del Pisa, e buoni ultimi Frossi e Locatelli, già in procinto di essere accaparrati dall’Ambrosiana».
L’Olimpiade calcistica di Berlino è di livello alto, ma non assoluto: mancano l’Uruguay, il Belgio e la Cecoslovacchia, protagoniste su tutti i gradini del podio delle prime edizioni. L’Italia svolge una minuziosa preparazione a Merano, dove Pozzo ha convocato la rosa da lui personalmente scelta. Che però non riscuote una grande fiducia, a causa della scarsa esperienza dei suoi elementi, tutti esordienti. E infatti la partenza è sotto tono. La Nazionale inizia facendo fatica contro i non irresistibili Stati Uniti (1-0, rete di Frossi al 58′, espulso per scorrettezze cinque minuti prima Rava) in un match che prevede l’eliminazione diretta e che quindi crea apprensione per tutti i 90′. Preoccupato, Pozzo striglia i suoi e nei quarti arriva una travolgente grandinata nei confronti del Giappone (8-0, 4 reti di Biagi, 3 di Frossi e una di Cappelli), rivelatosi molto meno pericoloso del previsto, nonostante la sua precedente impresa con la quotata Svezia (3-2).

In alto, la selezione giapponese, battuta 8-0 dagli azzurri.
Sopra, i favoriti tedeschi estromessi dalla Norvegia
siana-Inter, capocannoniere del torneo, 7 pesantissimi gol per lui alla fine, Frossi, friulano, ala destra, gioca con un paio di occhiali dotati di lenti infrangibili, procuratigli dallo stesso Pozzo, fissati dietro alle orecchie da un elastico. Diventeranno immediatamente il suo marchio di fabbrica e lui, che sarà anni più tardi un allenatore di successo (con il modulo a M), verrà chiamato ‘il dottor sottile’, per le sue originali intuizioni tattiche. Frossi è l’uomo simbolo di una Nazionale inizialmente poco considerata, come lui stesso ammetterà in una rievocazione: «L’indifferenza generale ci accompagna ed i più noti critici sportivi non credono in noi. Ci definiscono una buona compagine, ma nulla più. Noi invece siamo sicuri delle nostre forze e abbiamo l’intima convinzione che sapremo superare ogni aspettativa». Il bomber della XI Olimpiade Moderna narra così le sue sette perle. «Con gli Stati Uniti un allungo di Marchini mi trovò pronto allo scatto: superai in velocità il terzino che mi contrastava e tirai deciso segnando l’unico goal della partita. Nei quarti di finale il Giappone venne subissato da otto goals, tre dei quali segnati da me. Successivamente incontrammo la Norvegia: stilisticamente fu la miglior partita del torneo. Per me fu la peggiore, perché mi buscai un calcio alla testa verso la metà del primo tempo e rimasi stordito. Tuttavia, raggiunti dagli avversari nella ripresa, toccò ancora a me risolvere la contesa. Ciò avvenne nel primo tempo supplementare, allorché un tiro di Bertoni venne respinto mezzo metro più in là dal portiere ed io, irrompendo come una furia, misi in rete. Arrivammo in finale contro i dilettanti austriaci, che secondo le previsioni generali avrebbero dovuto batterci. Scendemmo in campo facendo tesoro degli insegnamenti di Pozzo: forti nella preparazione fisica, fortissimi in quella morale e fu quest’ultima a darci la vittoria. A venti minuti dalla fine segnai il goal che supponemmo decisivo, ma dieci minuti dopo si verificava il goal del pareggio. Ci vollero i tempi supplementari e al 92′ minuto strappai la rete risolutiva; centro di Gabriotti, magnifica finta di Bertoni che simulò un’entrata di testa; irrompendo in piena corsa mi trovai il pallone sul sinistro. Sono sempre stato scarso e incerto su quel piede; ma quella volta colpii duro e secco: pallone in rete, e più tardi il nostro tricolore si alzava superbo sul pennone più alto dello stadio, nel silenzio solenne di centomila e più spettatori».

L’altro grande protagonista, Vittorio Pozzo racconta così la cavalcata vincente sull’Austria: «Secondo minuto del primo tempo supplementare. Pallone di Frossi nella rete austriaca. Ci siamo. È cosa fatta. Ventotto altri minuti di lotta accanita. I nostri che si battono come giganti, il fischio finale dell’arbitro tedesco Bauwens. Santa Olimpiade, sei cosa nostra! Corro sul campo, i giocatori mi volano incontro, mi abbracciano, mi travolgono. Ci chiamano davanti alla tribuna d’onore. Lassù, quei due marinai che issano lentamente la bandiera italiana sul più alto pennone dello stadio. Tutt’attorno, le centomila persone che prima ci erano contrarie ora stanno in piedi e salutano noi. E noi, qui sull’attenti, mentre echeggiano le note dell’inno nostro. Credo di essere solo io a piangere, mentre faccio uno sforzo a stare rigido sull’attenti. Macché, piangono tutti
quei ragazzi nostri. Ancora una volta arrestati, attimo fuggente, sei così bello». Un’impresa quella dell’Italia: doveroso ricordare l’undici schierato da Pozzo che ha preso l’oro. Venturini, Foni, (capitano) Rava, Baldo, Piccini, Locatelli, Frossi, Marchini, Bertoni I, Biagi, Gabriotti. Anni dopo il Commissario Unico avrebbe ricordato, a freddo, quei grandi momenti, superiori persino (oggi sembra incredibile) a quelli dei successi iridati: «Era la vera squadra dei giovani: venti, ventun anni e poco più… E si era andati avanti… E la cosa era riuscita… L’avevamo fatta grossa. Avevamo vinta una Olimpiade. E i giocatori l’avevano vinta bene, meritatamente, questa Olimpiade. Nessuno, assolutamente nessuno, nemmeno tra i nostri avversari, ne dubitava». Alfredo Foni, pilastro della difesa, rammentava l’imprevista e grande affermazione come una delle sue più grandi gioie sportive. «Nessuno di noi aveva mai giocato in A, pochissimi in B… Ho avuto due anni dopo la soddisfazione, assieme a Rava e a Locatelli, di vincere in Francia il Campionato del Mondo, ma le cose andarono piuttosto lisce, la nostra superiorità era evidente. A Berlino, invece eravamo una delle poche squadre che non fosse una A, ma certamente supplimmo con una specie di spirito goliardico commisto alle nostre capacità di ragionamento. Intelligenza e velocità furono le nostre armi preferite, le armi tradizionali che ci consentirono quell’insperato successo». Foni sarebbe diventato un campione, sul campo e in panchina, ma molti dei quattordici olimpionici rimasero nell’oscurità dopo i lampi d’oro di Berlino: Scarabello addirittura si sarebbe dedicato alla carriera cinematografica.

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