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Il Cielo sopra La Spezia

Il Cielo sopra La Spezia. Quattro passi sulla luna

michael jackson

Quando il riff di Billie Jean impazzava in tutte le radio ed in televisione Farrah Fawcett stendeva con un aggraziato colpo di karate il cattivo di turno, il nostro Paese era molto diverso da come lo conosciamo oggi. C’erano Craxi, Pertini, Andreotti ed il PCI (indovinate un po’ chi è rimasto?), l’Italia vinceva il mondiale di Spagna, le ragazze si cotonavano i capelli e la moda imponeva che i jeans dovessero mostrare i calzini “all’acqua in casa”. La nostra città era diversa, ed anche noi lo eravamo, quelli della mia generazione, i quarantenni di adesso. Spezia era un grigio dormitorio a cielo aperto, se ci toglievi Piazza Verdi al tramonto ed un paio di locali come la gelateria Fiorentina e la Brasserie, mitica paninoteca dietro l’angolo, appunto, di Piazza Verdi, per trovare qualcosa da fare le sere dei week end (di uscire in mezzo la settimana neanche esisteva l’idea) dovevi emigrare verso altri lidi. La meta preferita era la Versilia, ma i più temerari di noi si spingevano anche sino a Firenze, perlomeno quelli che come riferimenti di immaginario giovanile avevano la cultura rock, dark e punk, e non quella pop dei Duran Duran e di Michael Jackson.

Ma anche a noi “alternativi”, Billie Jean piaceva, eccome. Non lo avremmo mai confessato pubblicamente, impegnati com’eravamo a giocare ai duri con un paio di “clipper” ai piedi comprate in estate a Camden Town, capelli rasati ai lati e lunghi davanti ed ascoltando “London Calling” dei Clash, ma quel pezzo, che era un mix straordinario di groove funky e di sonorità analogico/elettroniche new wave, riusciva a toccare anche i nostri cuori neri. Come non lasciarsi trasportare da quel giro di basso così solido e flessuoso? E questo, Michael Jackson, il primo artista black ad infrangere le barriere razziali riuscendo a trasmettere un proprio video a MTV (proprio Billie Jean), lo aveva capito bene. Era riuscito a creare una straordinaria alchimia con una “song” così perfetta da riuscire a parlare contemporaneamente alle masse ed ai palati fini. Il segreto del pop si svelava nella sua voce e nei suoi passi di danza verso la luna e che accendevano mattonelle intermittenti sui marciapiedi del successo planetario.

Questo è stato Michael Jackson, l’inventore della comunicazione globale, in un epoca in cui non esistevano i telefonini e tanto meno i social network del web 2.0. Due anni dopo del lancio di Billie Jean su MTV, nel 1984 trasmetteva per la prima volta Videomusic mandando in onda il clip di All Night Long (All Night) di Lionel Richie. La prima televisione musicale in Europa era nata in Toscana, alla faccia di quelli che sostengono che l’innovazione non si addice a noi italiani che siamo bravi solo a cucinare, cantare, fare le ore piccole e cucire abiti.
Michael Jackson, Madonna, Prince, i Police, i Duran, gli Spandau e moltissimi altri diventarono volti abituali, entrando di prepotenza nelle nostre case. Così, anche noi nella periferia dell’impero imparammo il linguaggio dei videoclip musicali, e fu un’autentica rivoluzione culturale di massa, pacifica e definitiva. La musica non era più solo ascoltata da un disco o durante un concerto live, ma poteva essere vista comodamente nel salotto di casa, attraverso il familiare e rassicurante schermo televisivo. La canzone era adesso sostenuta da una piccola storia, raccontata da un nuovo linguaggio audiovisivo che restituiva anche tutto il contorno di volti, movenze, abbigliamenti, trucchi, pose. Una sintassi potentissima, che contribuiva a creare il mito della pop star e relativo “life style” di riferimento. Un processo che cambiò le caratteristiche e l’identità di un’intera generazione, il suo modo di rapportarsi al tempo libero ed alla socialità, alle relazioni interpersonali, alla musica.

Si può discutere all’infinito sul talento artistico di Michael Jackson, sul valore della sua musica, su cosa è pop e cosa è arte, sui concetti di alto e basso applicati alla cultura, e probabilmente non verremmo a capo di niente. Certamente, personaggi come lui o Madonna hanno segnato un’epoca, dettato mode e modelli di comportamento a livello planetario, abbattendo barriere culturali, linguistiche e geografiche. Di fatto, anticipando di qualche lustro la tanto inflazionata globalizzazione. Naturalmente, la partita è stata giocata non solo sul piano della comunicazione e del costume di massa, ma anche, soprattutto, su quello del business. La scena musicale, che già aveva vissuto una trasformazione profonda verso il mercato negli anni settanta, negli anni ottanta è diventata realmente una vera e propria industria, un collettore multinazionale di risorse finanziarie, perdendo completamente la sua “aura” semi artigianale che ne aveva preservato una certa qualità di massa. Di fatto, le regole che valevano per la vendita dei dischi erano diventate le stesse che si potevano utilizzare per automobili e detersivi. Marketing, la nuova parola d’ordine.

In questo, Michael Jackson ed il suo entourage sono stati autentici maestri. Hanno alimentato una leggenda contemporanea, una vera e propria macchina per fare soldi, non solo con il prodotto musicale ed i suoi contorni, ma anche attraverso una “mitopoiesi” continua che si è avvalsa di stravaganze come lo “sbiancamento” della pelle (operazione che ha sempre fatto incazzare non poco la parte più consapevole della comunità afroamericana), amori inventati ad arte, processi giudiziario/mediatici, lussi sfrenati, plastiche facciali ed eccessi d’ogni tipo. Tutto ciò ha contribuito a creare un vero e proprio fenomeno d’idolatria di massa in milioni di fans sparsi per il globo. Uno “zoccolo duro” che è arrivato ai giorni nostri, nonostante gli anni d’assenza dalle scene ed i processi per molestie sull’infanzia: lo dimostrano le scene di disperazione all’annuncio della morte di Jacko e l’intasamento di Wikipedia e dei vari social network.

Con la scomparsa di Michael Jackson possiamo davvero considerare finita un’epoca, i favolosi anni ottanta, con tutti i suoi strascichi e lustrini che, periodicamente, tornano di moda. Un periodo pieno di contraddizioni, di innovazione e stagnazione, di movimenti di liberazione e progresso insieme a venti di restaurazione e di repressione d’inaudita violenza. Di musica fantastica e di autentica spazzatura.

Chi ha vissuto quel tempo da ragazzo ricorda com’era collocato in quegli anni, se aveva scelto l’underground o il pop. Con il senno di poi, si può anche cambiare idea, e possiamo rimescolare le carte della memoria e dei nostri gusti, figuriamoci. In fondo, si tratta solo della giovinezza, il periodo più bello ed incerto della nostra vita.

Ecco, Michael Jackson mi fa pensare proprio a questo, a quando eravamo giovani. A quando ascoltavo di nascosto Bilie Jean e mi piaceva da morire, anche se non lo avrei mai dichiarato, neanche sotto tortura. E sfido chiunque a non aver provato, almeno una volta, chiuso nella sua stanza, con il volume della radio o di Videomusic al massimo, cosa significa camminare come un gambero sulla luna.