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I racconti della domenica

Riflessioni su una consuetudine

di Roberto Baldelli

La tana dei Filobus

Ogni anno, la prima domenica di giugno, mi aspetta un appuntamento irrinunciabile. Ogni anno, senza mai perderne uno, da quando ero un bambino. Non mi hanno fatto desistere né il maltempo, né qualche linea di febbre, né alternative talvolta obiettivamente più allettanti. No, non ho mai tradito l’appuntamento con il “Bosco del sasso gallina”. O meglio, l’appuntamento col viaggio per il “Bosco del sasso gallina”, visto che quella giornata di giugno è caratterizzata più dal lungo percorso a piedi che dalla permanenza alla meta, e visto che ho sempre rinunciato alla possibilità di percorrere il tratto iniziale in macchina, cosa fattibile da quando un pezzo di antica mulattiera è stato trasformato in strada carrozzabile.

Non è un motivo preciso a spingermi ogni anno ad affrontare quel viaggio. La meta non ha nulla che non sia rintracciabile in centinaia di luoghi simili. Certo, il luogo è ameno, un bosco di abeti su una montagna lontana dai rumori e dalla gente. Ma la vera spinta è forse il fatto di non voler interrompere una consuetudine decennale, per la quale ogni anno vivo un’attesa tutto sommato esagerata. E così eccomi qua, ancora una volta, con lo zaino in spalla, a salire i gradini della vecchia mulattiera che dalla città conduce al paese, prima tappa del percorso. Non ci passa più nessuno, se non qualche escursionista con le gambe buone. Il passo è veloce, ma non troppo, perché la strada è lunga, quasi tre ore di cammino, di cui buona parte in salita. Dopo circa mezz’ora arrivo alle prime case del paese, qualche cane abbaia scodinzolando, un gatto mi tiene d’occhio senza scomporsi. È lo stesso dell’anno passato, accovacciato sullo stesso muretto. È lo stesso di tutti gli anni prima, o forse sono io a volerlo così, sempre uguale, in un istante che io conserverò di anno in anno come unico testimone della sua essenza. Ed affiora la voce di mio padre che mi insegna a non avvicinarmi ai cani che ti fissano negli occhi, come quello, nero, sporco, magrissimo e ringhiante che io volevo accarezzare, e che poi non vidi mai più. Passato il paese, il sentiero continua meno ripido, verso la solitudine dei boschi. E continuano a susseguirsi lampi di ricordi, come un bastone fatto con un ramo di castagno, una frase ad argomento sportivo pronunciata da un mio amico, una pigna presa a calci.

È incredibile come a volte restino impresse nella mente certe immagini apparentemente insignificanti, che ti accompagnano per tutta la vita e che non racconterai mai a nessuno. Ecco il grosso pino, quello che profuma delle pesche che mia madre mi porgeva per merenda: dietro alla curva si apre il panorama sul mare, poi si continua sul margine di una pineta. Dai rami penzolano ancora le opere di Leopardi e le glaciazioni preparate per la maturità, talvolta interrotte da successive e meno immediate argomentazioni destinate alla tesi di laurea. Non mi sono mai deciso ad interrompere quell’abitudine. D’altra parte non potrei decidere di non andarci più senza concedermi quel viaggio un’ultima volta. Ma affrontare il viaggio con la coscienza di farlo per l’ultima volta, mi renderebbe ogni singolo passo un tormento infinito, come quando si fa qualcosa sapendo che mai più la si potrà ripetere. D’altro canto vorrei evitare la pena di essere costretto dalle mie condizioni fisiche e dall’età a rinunciare per sempre al viaggio, e l’unico modo per evitarlo è rinunciarvi di proposito, con un’estrema affermazione della volontà sull’ineluttabilità degli eventi naturali. Spesso sorrido di questa considerazione, in fondo è un po’ come scegliere il suicidio per sconfiggere la morte, o meglio, per cederle, ma dettando orgogliosamente le condizioni. Un’illusione, un inganno a se stessi.

Mia moglie, che dall’anno del nostro primo incontro ha sempre condiviso con me la tradizione, è stata più fortunata. Qualche anno fa fu costretta a rinunciare ad accompagnarmi a causa di una frattura ad una caviglia. Quella rinuncia, forzata e quindi libera da esitazioni e rimorsi, fu un’occasione offertale dal destino per interrompere la consuetudine del viaggio, forse la più indolore possibile, perché se è vero che derivava da un impedimento fisico, era in ogni caso qualcosa di temporaneo e risolvibile, che lasciava tranquillamente immaginare un ritorno per l’anno successivo. Così non fu, e forse lo sapevamo già quando m’incamminai da solo. Restando a casa, ebbe modo di rendersi conto che quel viaggio non era poi così necessario. L’anno successivo decise di non venire: non stava benissimo, una banale indisposizione, che sarebbe stata facilmente superabile se non ci fosse stata la defezione dell’anno precedente: la consuetudine era già stata interrotta, quindi la decisione di rinunciare non era così importante e difficile. Così decidemmo, di comune accordo. Da quell’anno in poi era diventato per lei più facile decidere di stare a casa che non di partire, si stava affermando una nuova consuetudine: lei a casa, io sul monte. Adesso, è normale così, e, nel nuovo stato delle cose, ci sono piccoli dettagli divenuti a loro volta consuetudini irrinunciabili, come ad esempio la telefonata che le faccio col cellulare quando arrivo sul monte, la tavola imbandita per la cena quando torno a casa la sera, il mio resoconto sul viaggio e sulla situazione dei sentieri e dei boschi. Eccolo! Ecco il sasso la cui forma bizzarra aveva suggerito alla mia mente di bambino il paragone con un’enorme gallina. Nessuno viene mai qui, per dodici mesi quel sasso rimane solo un sasso, anzi, nemmeno, perché non c’è nessuno che possa vederlo e quindi attribuirgli un ruolo, seppur di sola presenza insignificante. Per qualche ora lo guarderò, lo toccherò, gli darò un’anima che non ha e, in virtù di quell’anima, lo penserò felice, grato a me per avergli dato la possibilità di essere utile, o anche solo la possibilità di essere. Ecco, io sento tutto questo, poi, allontanandomi da lui, lo immaginerò triste nella sua inutilità, in un altro anno di attesa.