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I racconti della domenica

Racconti della Sprugola

di Marcello Albani

Via Chiodo

La vita come ricerca. Non è solo un modo di definire il percorso di un uomo ma è anche – e soprattutto – il “programma” che ognuno di noi si propone di seguire senza che nessuno glielo abbia imposto ma perché ognuno sente
come necessario e indispensabile alla propria esistenza, proprio come l’aria che respira. Non ci si può meravigliare, quindi, del crescente desiderio di raccontare, a se stessi prima che agli altri, le tappe del percorso di una vita che quasi sempre trova la sua linfa (e, di conseguenza, le proprie radici) negli anni giovanili che, proprio per questo, si definiscono “formativi”.
Marcello Albani non si sottrae a questa “legge del tempo” e affonda gli artigli della memoria nel tempo che
gli è più caro, quello dell’infanzia e della giovinezza, che ha per sfondo un panorama ben preciso, quello del Canaletto,
dove i personaggi si presentano spontaneamente per recitare (starei per dire “replicare”) ognuno la sua parte. Dalle
descrizioni e, soprattutto, dai dialoghi, scaturisce un affresco che non ha nulla della semplice nostalgia del tempo
andato ma che, al contrario, evidenzia la molteplicità dei “piani” di lettura: da quello più superficiale e didascalico a
quello più carico di sentimenti, da quello semplicemente descrittivo a quello più profondamente riflessivo. Su tutto,
però, l’autore sparge con discrezione, quasi con pudore, pennellate di ironia che servono a capire l’essenza di un
mondo che non c’è più ma che vale la pena di evocare per la semplice ragione che da quel mondo egli stesso viene.
Queste pagine, però, non sono soltanto l’occasione per sfogliare vecchie cartoline ingiallite né tanto meno per solleticare quell’istintivo desiderio di tuffarsi in un passato che comunque provoca cascate di emozioni.
Questi “Racconti della Sprugola” vogliono essere testimonianza vera di una “ricerca” che, appunto per questo, non
ha l’ambizione di aver esaurito il suo “programma” ma che vuole lanciare un “ponte” con il passato senza la zavorra di banali nostalgie bensì vuole sottolineare l’importanza di questo “patto con il tempo” per scrivere insieme al lettore
una specie di testamento spirituale da lasciare come indispensabile eredità per le generazioni future.
Due parole, infine, sulla scrittura di Marcello Albani. Un italiano scorrevole e sostanzioso insieme, gradevole
e riflessivo, spruzzato qua e là di termini dialettali che non sono mai d’ingombro alla lettura e che, anzi, la rendono
più piacevole perché innestano nel tessuto lessicale elementi indispensabili non solo alla comprensione del testo
nel suo insieme ma ne costituiscono addirittura le fondamenta invisibili. Racconti da leggere tutto d’un fiato, questi che ci regala Marcello Albani. Racconti che riconciliano, anche, con il mondo della scrittura: un mondo in cui spesso prevale il piacere di piacersi e il desiderio di essere incensati. Albani di questo non ha bisogno. Egli ci regala semplicemente il piacere di una lettura che lungo il percorso accidentato della memoria porta alla scoperta di un mondo che non è solo dell’autore ma di tutti. E questo è un regalo di cui dobbiamo essergli grati.

Prefazione di Salvatore Di Cicco
I bimbi.
Una quinta, una scena, e si fabbrica un ricordo; quindi se ne impadronisce il tempo, l’archivista dei ricordi. Gran parte, la paglia, li getta nel cestino. Altri, molto pochi, li inamida intatti così come si svolsero: paure, flash di gioia, il caro volto di un Defunto, e li ripone, a tua disposizione, come i colletti duri di una volta nel cassetto alto di quel trumò antico. Altri ancora, parecchi, li sfuma e li deforma come un paesaggio in fondo ad una strada dall’asfalto arroventato, li
raschia con la pomice e te li rende, ognuno, come una sorta di tappeto antico pieno d’abrages, storto e con le cimase sfilacciate, ma sapido del sale della vita… della tua vita.

Questi e quei ricordi sono la tua Treccani. Se vuoi consultarli devi prima restaurarli. Il bimbo… io… aveva meno di quattr’anni. Quella mattina i suoi non c’erano, giustificati, e lui tenendosi per mano con altri bimbi d’altre mamme, per-
corse i sentierini dei campi coltivati del borgo di Baceo per giungere in corso Nazionale, dove allora incrociava viale
Italia. Lo colpì la folla, mai vista tanta; molte le donne che ronzavano come vespe infastidite. Poi si stancò d’attender chissà cosa, forse cominciò a frignare, e dalle braccia di quella mamma che l’aveva sollevato vide un tale che, correndo o pedalando, ansimava ed urlava come morso da un ramarro: “I arìvo… I arìvoo… I arìvoooo…”
I tanti gruppetti si fecero di lato per liberare il centro della strada, di terra bianca piena di buche. In alto sul viale, verso Migliarina, si levò un frastuono di ferraglia celato in una cortina di polverone che, scendendo velocemente, soffocava le urla della gente ormai impazzita e scomposta in un gesticolare indiavolato. Quando la colonna giunse a scorrergli davanti, il bimbo non si spaventò. Fu solo una gran meraviglia vedere quei ruggenti mostri neri, infangati e polverosi, quelle stridenti ruote grandi il triplo di quelle dei carretti di verdura, unici veicoli a lui noti.
Quegli uomini differenti che dai cassoni dei camion dal telone sollevato, sbraitavano, ridevano e gettavano qualcosa
che la gente s’accalcava a raccattare, lo fecero sorridere divertito; e battè a lungo le manine, come gli altri tutt’intorno,
a quello più diverso di tutti che suonava… suonava chiarissimo e fortissimo, senza le scariche della radio del suo
babbo. Era Luis, non poteva essere altro che Luis che, in piedi sul Dodge dal muso lungo, con i suoi occhi a palla e le sue guance gonfie e tonde come i gozzi delle rane, frustava la sua cornetta mentre i suoi amici gettavano pacchetti di
Chesterfield a quei vecchi, abituati a fumare le croste della vigna avvoltolate nella carta di giornale.
E cosa suonava Luis in onore di quei ragazzi che se tornavano a casa, in onore di quei partigiani arrampicati sugli
Sherman dai cingoli lucidi, con ancora in spalla lo schioppetto paracadutato dagli inglesi e negli occhi la morte del-
l’amico?… Cosa poteva mai suonare Luis?
Il bimbo di meno di quattr’anni si sforzò di ricordare il primo ricordo, il primo restauro – e la cornetta nuova-
mente suonò per tutti, per tutti quelli segnati dalla guerra: “When the Saints, taratà, tà, ta … e quando i Santi mar-
ceranno, taratà, tà, tà – tà,tà…”